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martedì 27 agosto 2013

Colli e Hölderlin

Hölderlin è il personaggio, del mondo moderno, che Colli ammira più di tutti gli altri, ed è a lui che egli consegna la palma della grandezza. Colli manifesta verso di lui una lode così incondizionata da far sembrare tiepida finanche l’ammirazione per Nietzsche. La ragione è quella che per Colli più vale: “Hölderlin… è l’unico ad aver realizzato la grecità”. In lui, Colli nota qualcosa che lo differenzia in modo sostanziale dagli altri “restauratori della Grecia” (Nietzsche compreso): “il parlare come i greci è qualcosa di più che parlare sui greci” (PEAC 98). In Hölderlin dunque si scopre la Grecia antica, le sue creazioni poetiche ne costituiscono un’interpretazione, più autentica di quella di Nietzsche (DN 148; RE fr.81). A questa realizzazione il poeta è giunto grazie alla qualità della sua natura, prescindendo dal classicismo tedesco e dalla filologia. L’eccellenza di Hölderlin rispetto a Nietzsche viene sottolineata da Colli anche sul piano della creazione artistica, mettendo a confronto le loro espressioni più alte, lo Zarathustra e l’Empedocle, rispetto al modello antico. A Colli risulta che nello “Zarathustra ... la forma è tutto fuorché greca (barocca, biblica, orientale ecc.)”, mentre “Hölderlin realizza la forma greca, ed è l'unico a riuscire in questo nel mondo moderno, Hölderlin – prosegue Colli – scrive come Omero, Pindaro, Empedocle, Platone…”. E la ragione di questa rinascita del verso greco in Hölderlin non risiede nella riuscita imitazione ma in qualcosa di ben più profondo: egli “sente quello che sentirono costoro e riesce ad esprimerlo” (RE fr.81). Ciò tuttavia non denota la mancanza di grecità in Nietzsche, ma soltanto un'indole greca più genuina in Hölderlin che si riflette anche nello stile: “questa tragedia incompiuta di Hölderlin è una creazione di natura musicale, esprime in modo immediato, senza nessi coscienti, un'interiorità” (PEAC 101). I termini usati qui sono gli stessi che Colli adoperò per accennare ai momenti culminanti dello Zarathustra (cfr. SN 109-116, 117-123); ma il sentimento del divino in Hölderlin è più intenso (DN 148), probabilmente per questo il suo Empedocle non si presenta attraverso un linguaggio diluito di figure e abbondante di gesti drammatici e caricati (barocchi). Nella forma dunque Hölderlin ha “divinato la poesia greca”, e quanto al contenuto riesce meglio di Nietzsche a cogliere la grandezza. Il personaggio di Zarathustra, confrontato al suo Empedocle, appare a Colli ancora troppo umano e inquinato da vizi moderni (solitudine). Il concetto di grandezza si ripropone qui, ma in una più alta concezione. La nota introduttiva alla tragedia di Hölderlin è l'occasione migliore che si presenta a Colli per illustrare ciò in modo adeguato. Egli nota anzitutto che il dramma non verte sul conflitto di passioni tra persone, o sul conflitto tra un individuo e una situazione oggettiva, bensì sull'incompatibilità di natura, umana e divina, che convergono nello stesso individuo. L'azione del dramma ha un esito tragico: fatalmente il dio si afferma nell'uomo e sull'uomo, e se in un primo tempo il contatto con il divino costituisce il trionfo espressivo del sapiente, l'eccesso di interiorità finisce per dilatarsi in maniera incontenibile, fino a spezzare l'esistenza corporea. Empedocle sceglie la morte, ma non per pessimismo, bensì per una sovrabbondanza di vita, ché sente inadeguata l’esistenza individuale e brama un ritorno alla radice di tutte le cose, agli dèi. Dice infatti Empedocle: “… bramando di giungere alla loro propria stirpe” (31B110,9 DK; trad. Colli in Lezioni E 127). Nella figura di Empedocle si assiste al trionfo del divino nell'uomo, in lui si raccolgono le molteplici forme del dio: filosofia e poesia, capacità retorica e profetica, dominio sulla natura e conoscenza estatica, scienza fisica e medica, potenza religiosa e politica (PEAC 101-103). La scelta di Hölderlin cade dunque su un greco: in esso egli scorge l'esempio più alto che l'individualità umana abbia raggiunto: “sacro tu mi sei" (Poesie 35). Ma questa grandezza, quel dio nell'uomo, egli può evocarla poeticamente solo perché la stessa pienezza di vita gli appartiene. Dice Colli: "A Hölderlin tocca un analogo destino tragico ... egli valica solitario le soglie della divina follia, dove l'ha condotto una troppo densa e inumana vita interiore” (PEAC 99). L'inevitabile estraneità dell'uomo superiore nel mondo moderno, ha nel destino tragico e nella disperata solitudine di Hölderlin l'esempio più tipico (PEAC 98; RE fr.81; DN 147). Così come Nietzsche, Schopenhauer, Beethoven, Kleist, Schumann (cfr. RE fr.114). L'indifferenza verso costoro testimonia a Colli l'estraneità della grandezza nel mondo moderno, ma nel caso di Hölderlin la questione gli appare più sconcertante, in quanto il fatto avvenne in un'epoca che pullulava di grandi “estimatori degli alti sentimenti”. Sono noti difatti i contatti di Hölderlin con Kant, Fichte, Goethe, Hegel, Schiller, Schelling, ma costoro, commenta Colli, “non subirono nessuna scossa dall'intensità della sua vita, nessun turbamento dal suo sguardo .. Tale fu il classicismo di Weimar: non riconoscere un Greco in carne e ossa” (DN 148). Non deve meravigliare il fatto che Colli adopera gli stessi argomenti che scaturiscono dall'Empedocle di Hölderlin per caratterizzare l'Empedocle storico (cfr. PHK 157-160), poiché la tragedia di Hölderlin è una “interpretazione autentica”, non semplicemente una creazione artistica. Non deve neppure meravigliare l'assenza di critiche verso di lui: Colli tratta Hölderlin come se fosse un presocratico. In un aforisma di DN, che ha per argomento l'estasi, egli lo cita senza nominarlo: “come dice il poeta” (DN 170).
I versi (citati anche in RE fr. 81) sono i primi dell'inno intitolato Patmos: “Vicino / e arduo a cogliersi è il dio”. Attraverso questi versi si potrebbe illustrare adeguatamente la dottrina del Nostro: il dio o l'immediatezza è vicina in quanto è in noi, ma ardua a cogliersi per l'istantaneità e non dominabilità del contatto metafisico.
Abbiamo visto fin qui come secondo Colli si concentrino in Hölderlin tutte quelle qualità che formano la grandezza. Ora però diamo qualche esempio concreto. Nell'ode sulla Vocazione del poeta affiorano i temi dell'arte come espressione dell'immediato e non come imitazione della realtà e la dottrina dell'attimo: "Ma non la sorte dell'uomo o le sue cure / Dentro la casa o sotto aperto cielo, / Anche se delle fiere più nobilmente / Sa nutrirsi e difendersi! Altro importa, / Altro è l'ufficio e l'ansia dei poeti: / E' all'Altissimo che apparteniamo, / Perché più accosto all'intimo sentire / Ci sia e amico in sempre nuovo cantico. /... / Il Genio creatore all'improvviso, / Su noi piombò divino, e ne restammo / Stupiti e muti, e come dalla folgore / Colpite ci tremarono le ossa" ( Poesie 93). L'attimo è paragonato alla folgore: diventa qui comprensibile quel frammento di Eraclito citato da Colli come enunciazione generale per la dottrina dell'attimo (DN 68): "Ogni cosa governa la folgore" (SG III 83). Ancora dell'attimo parla questo verso dell'ode intitolata Heidelberg: "Come mandato da dèi, una volta mi avvinse un incanto" (Poesie 49). Sulla infrazione del principio di individuazione, come condizione dell'estasi, ecco un passo illuminante dall'Iperione: "Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia" (Iperione 29) Di contro la povertà della riflessione: "un dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando riflette ... quando l'estasi si è dileguata" (id. 30). Il contatto col divino, con la natura, si apre immediatamente ad ognuno: "...cauto sfiora, sempre conscio della misura / Le dimore degli uomini per un attimo solo / Un dio improvviso, e niuno sa che sia". Anche se, dice ancora il poeta: "Troppo è arduo afferrarlo" (Poesie 173), tuttavia "Solo provandolo a fondo lo si afferra" (Poesie 179). La concezione del mondo, della vita, come espressione dell'immediatezza, del divino, si legge in questi versi: "Solo a periodi l'uomo sostiene pienezza divina. / Sogno di loro è, dopo, la vita"(Poesie 133). L'attimo dunque è la gioia, il resto della vita è scadimento, dolore dell'individuazione: "Ma a noi non è dato / In luogo nessuno posare, / Dileguano, cadono, / Soffrendo gli uomini / Alla cieca, da una / Ora nell'altra, / Come acqua da scoglio / A scoglio gettata / Per anni nell'incerto giù” (Poesie 37-39). Ciò che può liberare è la memoria: "Ma da tutti i travagli della vita / Nel sacro ricordare il cuore riposa"(Poesie 63); essa è sacra perché evoca la vita perduta, cioè "restituisce al cuore tutto ciò che gli ha preso" (Scritti 90). Il ricordo segna l'allontanamento dal presente, il distacco: "Compresi il silenzio dell'etere, / Le parole degli uomini non le ho comprese mai / ... / In braccio agli dèi sono cresciuto" (Poesie 33). Ma la vita divina è un insondabile e inoltre difficile a dirsi: "Enigma è il puro scaturire. Anche / Il canto può appena svelare" (Poesie 197). Tutte queste citazioni documentano implicitamente la poetica di Hölderlin. Il suo sfondo è tanto greco quanto quello della dottrina di Colli. Non ci resta che ricordare gli unici due esempi che lo stesso Colli ci dà dopo aver detto che "Hölderlin scrive come Omero, Pindaro, Empedocle, Platone" (RE fr.81). Il primo, l'abbiamo già ricordato (i versi di Patmos); il secondo, sono i versi 8-9 della poesia intitolata Metà della vita che Colli stesso traduce (in RE fr.763): "Ahimé, dove prenderò / - se è inverno i fiori, e dove / ...". Il primo esempio ha una indubbia matrice empedoclea (cfr. 31B133 DK); quanto al secondo, più che evocare qualche personaggio, sembra scritto per ricordare una qualche risonanza emozionale. Altrove (PEAC 99) Colli ci informa che quasi tutte le creazioni poetiche di Hölderlin hanno per argomento la Grecia. Ma con ciò Colli non vuole parlare, come spesso altri fanno, della fuga romantica verso un mitico passato. Anche in Germania Iperione sente la Natura (Iperione 175); non importano le epoche storiche, poiché il divino, l'immediato, si può cogliere in ogni tempo: esso è imperituro. Hölderlin fugge la realtà storica, l'umanità, perché essa vive senza il divino. Gli dèi si sono dileguati (cfr. RE 783), ma lui ha saputo riafferrarli. La nostalgia di Hölderlin è per un'epoca in cui visse la grandezza e per la vita di grandi uomini, verso i quali egli si sente affine, ma non è un'espediente poetico, un abbandono o un fantasticare. Lo struggimento è quello di un uomo che non ha avuto la occasione di dialogare nel suo tempo con grandi anime. Egli, "giovanilmente folle", ha avuto la conferma alla sua "pura gioia" dalla grecità, e non dalla cultura della sua epoca (cfr. Iperione 29-30). Il "sentimento bello, sacro, divino" che Hölderlin scopre in se stesso è lontano 6000 piedi dal sentimento cosiddetto romantico. Non è dunque l'ideale romantico ad essere trasferito nella antichità, come qualcuno potrebbe invece sostenere, ma l'antichità in un uomo che visse nell'epoca del Romanticismo. Quanto Hölderlin fosse uno straniero in quel mondo culturale, che vagheggiava la Grecia, lo abbiamo già detto. E la ragione di ciò è ancora Colli ad offrircela: "Hölderlin ... non aspira a diventare un greco, ma ha miracolosamente preservato in sé la natura greca" (PEAC 98-99). Con la ricchezza dei versi e della prosa di Hölderlin è possibile documentare, in rapporto a Colli, altre cose, come per esempio l'assimilazione della filosofia alla poesia. Dice infatti il poeta: "L'uomo ... che, durante tutta la sua vita, non ha sentito in sé, almeno una sola volta, la piena, pura bellezza ... , che mai ebbe a provare come, nell'ora dell'entusiasmo, tutto ritrovi un'intima armonia, quell'uomo non diventerà mai un filosofo" (Iperione 101). Il precetto di Hölderlin vuole condurre la vitalità della poesia nella filosofia. Egli sa che "tutta l'attività dell'intelletto è opera di necessità", ma sa altrettanto bene che l'uso puro della ragione, senza che in essa risplenda il divino, non è un uso sano, intelligente (Iperione 103). Poesia e filosofia hanno la medesima radice, il divino. Questo pensiero accomuna Hölderlin a Colli e costoro ai Greci.


Iperione o l'eremita in Grecia, a cura di G:V: Amoretti, Milano 1981.
Poesie, a cura di G. Vigolo, Milano 1982.
Scritti sulla poesia e frammenti, trad. G. Pasquinelli, Torino 1958 (EAC).

mercoledì 21 agosto 2013

Colli come educatore

Capitolo III


46. Colli insiste sul secondo argomento perché la ragione, «nata fuori della scrittura e ripugnante alla scrittura, fu proprio attraverso questa che si affermò come grande evento nella storia del mondo» (FE 201). Ma la ragione consegnata al discorso scritto ha subìto una falsificazione radicale. La ragione autentica dovrebbe essere un linguaggio che esprime gli universali ripetutamente sperimentali nell'interiorità. La scrittura invece non è un' espressione in senso metafisico; inoltre estende solo illusoriamente la consistenza espressiva della parola viva; non ha la capacità di rievocare tutto ciò di cui è stata caricata, per cui l'interiorità con la scrittura si perde, e molteplici, fuorvianti diventano le interpretazioni (cfr. FE 197-201). La condanna della scrittura è soprattutto una condanna della filosofia. La scrittura fu essenziale alla sua nascita (NF 116), di fatti «da allora la filosofia è cosa scritta e fondata su cose scritte» (FE 201).

47. In Platone Colli vede uno dei principali artefici della frattura verificatasi tra sapienza e filosofia. Anche se proprio attraverso questi gli diventa possibile intuire la vitalità della sapienza e guardare con sospetto la scrittura (cfr. NF 111-13). La personalità di Platone è complessa e ambigua (PP 169), tuttavia Colli riesce a dominare tutte le sue manifestazioni. Platone, dice Colli, abbandona la discussione sul piano presocratico, per viltà o per stanchezza, rinunciando al vero cammino intravisto in gioventù (PHK237). Già questa «evoluzione» traccia «una svolta decisiva nella storia della filosofia» (PHK 215). Il risultato che ne deriva è il precoce scadimento della filosofia, che cede il primato alla politica e all'etica. Ma fra tutte le visioni del mondo (mistica, pitagorica, ascetica, politica, erotica, dialettica, moralistica) che a Platone piace di recitare, la più carica di conseguenze è quella «scientifica». La scienza, in quanto sapere staccato dalla vita (PHK 238-9), rappresenta secondo Colli la più «grande menzogna» che Platone ha ordito ai danni delle future generazioni di filosofi. Creando l'ottimismo del sapere scientifico e assoluto, Platone inaugura quella fiducia nella ragione costruttiva che caratterizzerà la filosofia moderna (FE 213-14).

48. A questo punto della sua indagine Colli può affermare che la nascita della scienza rappresenta un fatto aberrante, qualcosa che ha stravolto la prospettiva originale.
In Grecia la .ragione è posta al centro dell'interesse, sono valutate in maniera così smisurata le sue capacità che si è creata l' «illusione di poter aprire con il suo aiuto scrigni preziosi e rivelare misteri inebrianti» (FE 172). Eppure Platone con il Parmenide aveva indicato una direzione contraria alla scienza, presentando i risultati della dialettica zenoniana (FE 211-12). Tuttavia nessuno, osserva Colli, ha saputo decifrare lo scritto platonico, si è invece preferito credere alle promesse di un sapere assoluto (RE 472).

49. La scienza, spiega Colli, con la sua pretesa di validità e stabilità oggettiva rappresenta la costruttività della ragione, il logos che ha reciso ogni legame con ·le condizioni, ogni richiamo all'immediatezza.
L'azione di Colli giunge a un altro momento importante quando scopre anche in Aristotele il grande inganno principiato da Platone. Colli lotta contro questo impulso dogmatico della ragione con le stesse armi di Aristotele, riuscendo infine a smascherare il «cosciente inganno» perpetuato dallo
Stagirita (RE 465; FE 105-7). Aristotele, spiega Colli, tace il principio modale (o necessario o contingente), il nerbo della dialettica parmenidea e zenoniana (RE 419), e innalza al suo posto la legge qualitativa, sotto la forma dei due presunti principi di non contraddizione e di terzo escluso, per salvaguardare la stabilità degli oggetti, condizione di ogni scienza, e per «coprire» la vera natura, distruttiva, del logos.
Allo stesso modo si comporta quando crea la sillogistica. Qui Aristotele complica ad arte la struttura molecolare della deduzione con una considerazione quantitativa, trattando i giudizi universali come se fossero necessari e i giudizi particolari come se fossero contingenti (FE 215 e segg.). Questo smacco graverà sulle menti delle generazioni successive, ignare, tuttavia ben liete di questa «eredità» che permette di costruire sistemi e scienze (RE 192, 288).

50. Platone e Aristotele hanno dominato la filosofia e conquistato la posterità «proprio perché hanno creato l'illusione del sistema e della ragione costruttiva». In seguito, osserva Colli, quando si credette di aver scoperto «una ragione più costruttiva», costoro «caddero in disgrazia» (RE 419). La nuova «esplosione teoretica» si ha con la filosofia moderna, per l'innesto di un ulteriore moto degenerativo, che fa sorgere la scienza moderna (RE 192). Dopo quella platonica, questa è l'altra grande menzogna sottolineata da Colli per mostrare la crisi della ragione, che sarà «tragica e decisiva per i secoli seguenti» (FE 223).
La ragione non si accontenta di essere costruttiva, vuole diventare «utile» (RE 474). La critica di Colli si rivolge soprattutto al procedere intellettuale della scienza moderna, che è «pesante, arido, limitato, senza sbocchi, senza fremiti intuitivi e le ambiguità profonde che caratterizzano l'intelletto dell'antichità». Inoltre, prescindendo dall'intuizione e dalla conoscenza immediata, la scienza è priva delle condizioni del conoscere; è insomma una colossale ipotesi, che tende a «risolvere il mondo in rapporti concettuali astratti», il cui senso è quello di «fare» qualcosa di utile (RE 82).
Senza curarsi molto della filosofia medioevale e rinascimentale, che per lui è soltanto la storia delle cattive interpretazioni dei concetti platonici e aristotelici (RE 205), Colli individua il momento in cui la scienza prende un deciso sopravvento sulla filosofia (RE 222). Massimi responsabili di questa sconfitta sono Descartes e Leibniz. Con il primo la mente umana mostra «i segni di una caduta fatale». L'esempio addotto è molto eloquente: lo spazio, che per i filosofi greci è una rappresentazione, per Descartes è una realtà assoluta, al di fuori della rappresentazione. In lui la figura del filosofo perde vitalità, dignità, «impallidisce, trascolora sino ad annullarsi nello scienziato» (FE 223). Quanto a Leibniz, egli è responsabile di aver canonizzato «il fondamento della scienza moderna sull'equivoco e l'approssimazione», con il calcolo infinite si male (RE 82, 182). Sentendosi inadeguata al nuovo compito assegnatole, la filosofia cede il banco alla scienza (RE 474), ma per Colli ciò non era giusto. Per «spezzare la superbia della scienza», in quanto filosofo, Colli si concede allora una particolare «vendetta»: la confutazione del concetto matematico di limite. Questo concetto è l'esempio «di come la natura della ragione non rifugge dalla falsificazione quando è costretta e piegata nella direzione dell'utile» (FE 223-4). Data la sua applicabilità in diversi campi, il concetto di limite (presupposto del calcolo infinitesimale in Leibniz e Newton) è stato, secondo Colli, lo strumento dello scatenarsi della scienza (PEAC 67). La sua confutazione ha dunque un alto valore teoretico, poiché viene confutato altresì un falso metodo: quello che crede di poter giungere alle cause prime con l'analisi dell'infinitamente piccolo.

51. Per quanto riguarda la critica alla logica-matematica, molto eloquente è la precisazione che Colli ha voluto aggiungere alla sue osservazioni: «non meriterebbe il posto di una confutazione tra i grandi errori della ragione - se ne parla qui solo per l'importanza che si attribuisce a questa «scienza» nel nostro tempo» (RE 397). Nel pubblicare i suoi risultati, Colli limita la critica alle «idee primitive» poste da B. Russel e A.N. Whitehead a fondamento dell'intero edificio deduttivo (FE 230-33). L'attacco è rivolto al procedimento di Russel; in esso Colli individua un'aporia nelle prime proposizioni dedotte dalle definizioni di disgiunzione non esclusiva, negazione e congiunzione. Queste definizioni, dice, sono formulate in modo scorretto, dal momento che esse stesse vengono a negare quei principi (terzo escluso e non contraddizione) che invece vorrebbero dedurre. Inoltre il modo di procedere di Russel è ambiguo, in quanto quelle definizioni applicano già il terzo escluso. La conclusione di Colli è che le «idee primitive» si rivelano inadeguate a dedurre i principi aristotelici.
Questo e altri «imbrogli» giustificano il rifiuto della logica-matematica proposto da Colli (RE 310).

martedì 20 agosto 2013

Colli come educatore

Capitolo III


40. Ponendo l'immediatezza dionisiaca «all'inizio del tessuto della logica» (RE 332), Colli ribadisce il pensiero della grande filosofia: non è la ragione che rende l'uomo superiore agli altri animali; la ragione non ha autonomia, è soltanto la ripercussione, la manifestazione di un maggiore intensità vitale che l'uomo possiede rispetto agli altri animali (DN 49 - 50). Ma la sua parola si fa veramente foriera di tempesta quando aggiunge che «l'uomo più alto non è quello che annulla tutto il resto per essere soltanto ragione» (RE 111). Qui Colli vuole contrastare la supremazia della ragione considerando l'uomo sotto l'aspetto universale della vita. Egli valuta i due poli su cui si regge l'organismo umano, la ragione e l'istinto, e afferma: «la risoluzione più alta di quella polarità si raggiunge quando l'uomo è in grado di sviluppare la propria razionalità come espressione, ultima manifestazione del proprio istinto». Se all'opposto si «confonde inestricabilmente istinto e ragione», cioè la ragione subordina a sé l'istinto, invece di esprimerlo, allora l'uomo è destinato «a una degenerazione senza salvezza». Queste considerazioni seguono una frase che sconvolge per il suo drammatico ammonimento, soprattutto perché scritta da un vero filosofo: «la razionalità divenuta istinto porta allo sfacelo biologico» (DN 52).

41. Lo sviluppo tecno-scientifico nel mondo moderno dimostra però che la ragione è sempre più rivolta all'utile, è posta cioè al servizio degli istinti vitali dell'uomo. I tempi moderni sono propizi alla rinascita della cultura? Ci sono delle situazioni favorevoli, tuttavia è altrettanto vero che «non c'è mai stata epoca tanto lontana dalla grande filosofia» (RE 112). Con poche parole e senza riferirsi direttamente all'attualità, Colli ci offre la possibilità di comprendere il problema: la ragione, dice, può affermarsi, irrobustirsi ed estendersi nella discussione di più individui, ma quando la sfera dell'azione (commercio, guerra ecc.) assorbe totalmente l'uomo da impedirgli di «prendere gusto a una discussione che sia fine a se stessa» (RE 188), allora la ragione non fiorisce; oppure fiorisce in modo artificioso e senza libertà, quando la razionalità dell'individuo viene condizionata da certi «meccanismi dominanti dell'argomentare» (RE 543), che guidano la ragione verso forme astratte già cristallizzate o percorsi già battuti e tolgono ad essa la «capacità di scandagliare le proprie radici» (RE 188).
La ragione non è soltanto uno strumento, è anche un'espressione mediata di tutto ciò che è primitivo e originario. Soddisfatti i fini biologici dell'organismo, l'uomo ha ancora il «potere della conoscenza», che può adoperare senza scopo. Tuttavia questa attività non finalistica può essere pericolosa, poiché c'è il rischio di procedere nell'astrazione a tal punto da dimenticare e non riconoscere più l'origine. E poiché da una «sopravvalutazione del conoscere in sé» sono sorte credenze dannose per l'uomo e per il suo agire, per Colli si impone il bisogno di chiarire «come stanno le cose per la ragione» (RE 204, 217) e di cercare un rimedio alla «ipertrofia del pensiero astratto» (RE 510).
Colli valuta i risultati a cui è giunta la critica demolitrice di Nietzsche: «ovunque (arte, filosofia, religione) si presenta il mito della superiorità della ragione umana, Nietzsche scopre la corruzione e la decadenza» (RE 111). Ma Colli vuole andare oltre l'impegno di Nietzsche e portare un attacco mortale alle pretese ottimistiche, sistematiche della ragione: «demolire in assoluto la ragione per la sua
intrinseca debolezza» (DN 85). In questa situazione di «emergenza estrema», non solo occorre «intuire l'unica direzione che rimane da prendere» e conoscere la «falsità delle rotte tenute sino a questo momento», ma nutrire anche la fiducia che abbia ancora un senso «prendere questa decisione» (RE 203).

42. Se si vuole recuperare l'autenticità, la direzione giusta è quella che conduce ai sapienti. «I Greci più antichi erano giunti a un grande risultato, alla scoperta del logos autentico» (DN 31). Per recuperare un «uso sano della ragione» e spiegarsi come sia potuto accadere che la ragione deviasse dalla sua configurazione naturale di rispecchiamento astratto della vita per presentarsi invece, dopo Platone, con certe pretese costruttive, Colli indaga anzitutto la sua «genesi storica».
Quale pensatore ha mai indagato in maniera profonda l'origine e la natura del logos? Colli giunge a questo risultato mettendo in rilievo l'aspetto teoretico che si connette alla divinazione (SG I 27; NF 39 - 46). Il senso originale del logos è recuperato con la magistrale ricostruzione dell'azione ostile di Apollo. E dopo aver spiegato come la ragione nasce dall'estasi, Colli la segue nei «tortuosi sentieri» dell'agone dialettico, dove essa vive la sua fase più matura.
La dialettica è stata la «culla della ragione»; molte
generazioni di dialettici hanno elaborato un sistema della ragione articolato, una logica non elementare; nella discussione sono forgiate le categorie, i principi formali, i pensieri più astratti. La valutazione di Colli si basa sulla purezza, perentorietà, creatività, autenticità, oggettività scoperta nel logos greco. La ragione in Grecia, spiega Colli, è sempre congiunta alla vita fremente: il passaggio dalla sensazione al concetto è lineare, senza spezzature; le parole sono sempre espressioni di contatti metafisici, di ciò che si è sperimentato nell'interiorità, per cui l'astrazione priva di una relazione con l'immediato non prevale mai. L'oggettività è data dall'agonismo dialettico, dove la discussione, in una pluralità di individui d'eccezione, quali erano i Sapienti, diventa lo strumento di una pulizia razionale: il confronto reale, vivente rende il logos puro, in quanto vengono eliminate le scorie dell'individuazione, depurato dal contingente, e la discussione è sempre teoretica, poiché ha per oggetto la natura della ragione, gli universali e i loro nessi (cfr. FE 159 - 193).

43. Tuttavia queste conquiste teoretiche, dice Colli, non formano un complesso costruttivo, non offrono cioè un contenuto dottrinale e dogmatico o un insieme di proposizioni che si impongono a tutti. Anzi, nell'impianto della discussione greca egli nota un intento distruttivo. L'esame delle testimonianze e il meccanismo stesso della dialettica gli confermano questa scoperta: nella discussione quasiasi tesi veniva confutata, qualsiasi verità veniva dimostrata come possibile e impossibile (NF 75-77). Questo risultato, a cui giunge la dialettica nella sua fase culminante, è chiarito da Colli con il commento alle prestazioni teoretiche di Parmenide e Zenone di Elea. Qui la sua indagine sulla ragione nella storia tocca il momento cruciale.
Parmenide, spiega Colli, teme che la dialettica possa distruggere, nella mente degli uomini immersi nell'apparenza, la natura metafisica del mondo (NF 88). Di fronte al dilagare del logos, anche l'immediatezza corre il rischio di essere annientata, se oserà assumere un nome qualsiasi (FE 192). Per salvaguardarla Parmenide ricorre a un inganno: esprime quella natura con una parola (essere), presa a prestito dall'apparenza, che però può dimostrare l'illusorietà del mondo come rappresentazione, come antitesi, come distinzione (PHK 123-5). Posta la suprema domanda dialettica: o è o non è, Parmenide impone di dire «è»; alla via del «non è» impone il divieto, è difatti impossibile. Per Colli quest'inganno di Parmenide nasce da un atteggiamento benevolo verso gli uomini: spazzata via la negazione, ogni dimostrazione è soffocata, ogni dedurre è bloccato. Il pensiero, conciliata la modalità con la qualità (cfr. FE 183, 193), rimane incatenato alla via che dice che è, che è la sola possibile.

44. Ma anche questa illusione di dominare, possedere le cose attraverso l'astrazione è annientata con violenza da Zenone (RE 200-1). Questi infrange il divieto e sviluppa sino alle estreme conseguenze il cammino distruttivo del non-essere (NF 90). La sua prestazione teoretica ha una portata devastante: qualsiasi oggetto è annientato nella sua realtà. Però nel «nichilismo teoretico» di Zenone Colli vede una «spinta catartica». Se di fronte alle deduzioni zenoniane «ogni credenza, ogni convinzione, ogni razionalità costruttiva, ogni posizione scientifica risulta illusoria e inconsistente» (NF 91), non rimane che volgere la mente alla inviolabile natura metafisica, per possedere una conoscenza non effimera.

45. Aver individuato la «vita ascendente» della ragione ha permesso a Colli di smascherare le «contraffazioni posteriori» (FE 170). Significativo nella sua indagine è il periodo ateniese (V e IV sec. a. C.), considerato dalla tradizione come il farsi adulto del pensiero umano, ritenuto invece da Colli come l'inizio di un travisamento, nei confronti della ragione, carico di conseguenze (FE 202).
In Gorgia e in Platone egli individua gli artefici di una tendenza che sarà fatale per il logos. Con Gorgia il primitivo linguaggio dialettico si trasforma in retorica: usato nell'ambiente politico per soddisfare i fini degli uomini che lottano per la potenza, il logos subisce una prima contaminazione (NF 100-2; FE 199). La scrittura è l'altro aspetto dell'equivoco: autore della trasformazione della dialettica in letteratura è Platone. Colli che ha conosciuto il «fiorire autentico della ragione» (RE 612), valuta questi due fenomeni come una perdita di naturalezza nell'ambito del pensiero umano.

lunedì 19 agosto 2013

Colli come educatore

Capitolo III  LA RAGIONE NELLA STORIA


35. Il pathos che coglie «un'interiorità nascosta dietro un'apparenza sensibile» (PHK 12) testimonia la vera attitudine filosofica. Questa realtà nascosta sfugge invece a chi crede nella realtà immediata delle cose (RE 240). In Colli si riafferma l'intuizione fondamentale della sapienza: tutta la molteplicità nella sua apparente realtà è intesa come «un intreccio di enigmi» da svelare, oppure come un «labirinto», da percorrere nei suoi meandri, per cercare quel «filo conduttore» che si sente in fondo alle cose (FE 236; RE 785). Questa intuizione permette a Colli di formulare esattamente il punto di vista dell'indagine filosofica. Dato che la conoscenza non è altro che un ricordo la cui origine è nel passato, si addice al filosofo rifiutare il presente come realtà e intendere i pensieri e la ragione come «travestimenti da smascherare» (DN 63). La ragione diventa dunque il luogo dove occorre svolgere la propria azione di filosofo. Indifferente al tempo, senza cedere all' «irrequietezza dell'agire individuale», Colli indugia sulla natura della ragione poiché in essa scorge «un'espressione mediata di tutto ciò che è primitivo e originario» (RE 189).

36. Per Colli c'è un pensiero di fronte al quale «tutto il resto della filosofia moderna viene abbassato a ipocrisia»: il riconoscimento dell'animalità come essenza dell'uomo (DN 103). E' il pensiero della grande filosofia, quella indiana e quella greca antica. La sua rinascita nell'epoca moderna si deve al genio di Schopenhauer, il quale ha saputo salvarsi, andando "controcorrente", e condurre una ricerca seria, dopo Kant, in un' epoca segnata dal totale disordine razionale. Mentre la ricerca filosofica perde la sua purezza, con la «sofistica deteriore» di Fichte, Hegel, Schelling (DN 54), Schopenhauer rimane «l'ultimo possessore di una ragione sana, di una ragione che sta con la sua origine metafisica - la volontà - in un rapporto ben definito, costante e armonico» (PEAC 127; RE 125).

37. Colli riprende la lezione schopenhaueriana, sottolineando che un rapporto necessario, gerarchico tra natura e ragione è rappresentativo di una civiltà matura. La supremazia della natura sulla ragione è alla base della sua struttura. La cultura mostra i segni dell'intelligenza quando l'arte, la filosofia, la religione esprimono con i loro mezzi l'intima natura delle cose (RE 125). Ma la cultura ha dimenticato questo suo compito (RE 112), e il grande pensiero di Schopenhauer ha su bìto l' accusa di irrazionalismo. Ha fatto fortuna il modo opposto di intendere la cultura, la vita e la conoscenza umana, quello di Hegel. Colli non può fare a meno di prendere una posizione in questa battaglia, dato che «la posta in gioco è vitale» (PEAC 118), e in onore a Schopenhauer lotta contro la logica di Hegel, mettendo in luce il carattere sofistico e manipolatorio di questa presunta «ragione» (FE 225).
Hegel è il personaggio più rappresentativo per una critica contro la ragione che tenta nuove strutture staccandosi dall' immediatezza (RE 408). Colli conosce l'enorme influenza esercitata da Hegel sulla cultura moderna, tuttavia non teme di considerarlo come il vero «legislatore del nichilismo», dopo aver confutato la sua confutazione dei principi aristotelici di contraddizione e del terzo escluso. In breve, Colli dimostra che una «ragione» che contesta quei principi non può sviluppare definizioni e discorsi di qualche valore: ogni pensiero di Hegel, negando una «qualsiasi» necessità nel discorso, è la «codificazione dell'arbitrario e dell'inconsistenza nichilistica» (RE 212). Non convince poi sapere che la «ragione» hegeliana è soltanto un momento di uno sviluppo, che è in divenire, poiché accettando come valido questo tipo di dialettica, risulterà che la ragione coincide con la vita, ma allora, conclude Colli, «sarà meglio vivere la vita - che è più in divenire della ragione - che pensarla hegelianamente» (DN 54; RE 220, 408).

38. Quando Colli ha cercato di imporre all'attenzione della cultura italiana il pensiero di Schopenhauer, le sue iniziative sono state ostacolate o ignorate. Dopo le sonanti accuse sulla cultura delle Università, i «professori di filosofia» evitano accuratamente di cimentarsi con Schopenhauer, per ciò l'ora di questo grande filosofo non verrà tanto presto. Ma la vera «fortuna» di Schopenhauer si deve misurare nella risonanza che la sua dottrina ha in quella di Colli.

39. Il pensiero di Schopenhauer è talmente decisivo che Nietzsche per Colli è un grande filosofo nella misura in cui si rivela l'unico esegeta e divulgatore di esso (DN 103; RE 111, 124). Entrambi sono «le ultime tempre filosofiche», gli unici filosofi che non usurpino questo nome (RE 92; PEAC 140; DN 32). La sapienza indiana e quella greca sono evocate nei loro scritti (DN 103).
Anche il pensiero di Nietzsche è stato siglato come irrazionale e nichilistico. Ma Colli, da vero discepolo, è sempre pronto a lottare per difendere la posizione del maestro. Negli ultimi cento anni, egli dice, Nietzsche è l'unico a presentarsi come razionale: «lui va alla ricerca del permanente nel mutevole, subordina il mutevole al permanente - «eterno ritorno delle cose uguali» - tenta di stabilire le grandi gerarchie che discendono dalla 'natura' umana». I più irrazionali invece sono «coloro che prediligono i concetti e i contenuti dinamici, gli illuministi, gli storicisti, gli hegeliani» (DN 64). Colli individua il limite della loro prospettiva: essi guardano alla fenomenologia, all'apparenza, piuttosto che alle condizioni permanenti (RE 104).