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giovedì 31 ottobre 2013

testo definitivo per gli atti del Convegno

Maurizio Rossi, Docente di Filosofia
Apollineo e dionisiaco

La recente pubblicazione di alcuni scritti giovanili di Giorgio Colli, nel volume Apollineo e Dionisiaco (Adelphi, Milano 2010), ci permette di chiarire il pensiero del filosofo sull’arte, con alcuni esempi, che integrano e spiegano gli aforismi dedicati all’arte contenuti nella sezione “Arte è ascetismo” di Dopo Nietzsche (1974). Tra gli studiosi di Colli queste note, che comprendono quelle sull’arte figurativa, erano molto attese, visto che durante il Convegno pisano nel novembre del 2004 ne era stata data notizia.
Il problema centrale della teoria di Colli riguarda l’espressione del dionisiaco. Qui Colli segue Nietzsche. Ecco cosa scrive nel ’72: “Grande scoperta di Nietzsche sull’arte: non si deve considerare la rappresentazione come tale…, ma di vederla in relazione a un fondo dionisiaco… Questo è l’unico metro per scoprire la grande arte…”. (La ragione errabonda, fr.505). Non ci resta che capire come si misura la vera grande arte; poiché come scoprirla lo sappiamo già.
Riassumiamo brevemente quanto sostiene Colli negli aforismi dedicati all’arte contenuti nella sezione “Arte è ascetismo” di Dopo Nietzsche (1974). Anzitutto per lui “l’arte non ha un oggetto”. L’artista non crea nulla, non imita nulla, non inventa, ma ritrova qualcosa nel passato: estrae gemme nascoste dal tessuto della vita. Per cui a rigore non c’è un oggetto, reale e ideale che sia, che l’arte debba necessariamente esprimere. Ogni estetica che parte dall’oggetto della rappresentazione artistica, percorre una strada sbagliata.
Colli precisa che “artista” non è chi “scrive poesie, o le cui poesie sono considerate arte per giudizio generale, o di alcuni esperti, bensì colui che si comporta nel modo” che spiega: l’artista è colui che sapendo retrocedere nel passato recupera “miracolosamente” le rappresentazioni nascenti, quegli attimi inesprimibili che non si trovano nella coscienza quotidiana dell’uomo. Intesi come primo ricordo dell’immediatezza della vita, questi attimi sono il materiale onde si costituisce l’individuo, per cui il recupero è possibile per chi sappia regredire, secondo la traccia del tempo invertito, in direzione di una condizione che precede quella dell’individuazione, l’immediato.
La tecnica dell’artista non consiste nelle capacità espressive, nelle abilità manuali, bensì nella capacità di rievocare il passato: si tratta dunque di una tecnica interiore, definita ascetica.
Il distacco dalla vita attuale, al di là del prospettive contingenti relative alla psicologia dell’artista, è decisivo e rivelatore della vera arte.
L’arte inverte il corso del tempo, la sua spinta dal presente verso il passato è contraria alla spinta cosmologica. Essa toglie la maschera alla necessità che plasma incontrastata la nostra vita, si oppone al trascinamento temporale, al flusso delle cose e ai loro nessi; si oppone al tralignamento connaturato a ogni manifestazione della realtà vivente, che appare come esistenza organica, ordinata, corposa, mentre è astrazione, anchilosato cristallizzarsi di categorie.
L’artista ha lacerato le ragnatele dell’astrazione, strappato l’ordito dell’ottimismo, in cui la necessità dissimula la sua violenza con il miraggio della finalità.
Come profondità o come passato l’arte recupera un universo in cui la necessità si mostra nella sua fluidità e il giuoco nel suo trionfo, un mondo in cui regna la manía, e la vita appare privata del dolore dell’individuazione. Una sorta di “infanzia”, in cui gli attimi, componenti elementari, che agglutinandosi fanno sorgere l’individuo, si liberano nella loro incandescente veemenza.
Chi riesce a demolire la falsa corposità del mondo, a liberarsi dallo spettro della necessità e va oltre, trova la violenza mescolata al gioco (Dioniso).
L’arte non assomiglia a nulla di questo mondo: quasi tutte le perfezioni e le squisitezze di questo mondo si gustano nell’arte, proprio perché qui la vita appare depurata dalla violenza.
Il cammino ascendente dell’artista, dal presente al passato di ricordo in ricordo, in direzione dell’immediato, ha poi un riflusso, in cui l’artista comincia dire quello che ha veduto. Dopo aver vissuto nel passato, ora vuole ritornare per raggiungere con la sua opera gli altri uomini. Ora opera come un demiurgo, arricchisce la trama delle rappresentazioni con la sua espressione artistica. Nell’opera d’arte tutti gli elementi della cosmologia (tempo, spazio, numero, causalità, necessità) sono accettati. Tuttavia gli attimi recuperati, date le differenti condizioni rappresentative che caratterizzano la vita ascendente da quella discendente, non sono riprodotti fedelmente: può accadere per esempio che quanto era iniziale nel recupero risulti finale nell’opera.
L’aspetto interessante di questa corsa all’indietro dell’artista è che l’immediato deve trovare un’espressione nel cammino discendente: è questa l’acme dell’opera d’arte. Prezioso suggerimento che la critica d’arte dovrebbe far proprio (Dopo Nietzsche, pp. 113-128).
Dunque il contenuto dell’arte è il dionisiaco. Qui, dove la violenza è mescolata al giuoco, è assente ogni condizione astratta. Quali sono i significati intrinseci di Dioniso? Sappiamo che è il dio delle contraddizioni, di tutte le contraddizioni (gioia e dolore, caso e necessità, estasi e spasimo, ecc.)
Se l’arte vera deve essere espressione del dionisiaco dovrebbe presentare l’ambiguità primordiale, carattere contraddittorio del dionisiaco.
In Colli appare evidente che il “contenuto dionisiaco”, che può essere espresso in forme, colori, suoni, volumi, parole, è qualcosa che riguarda la vita interiore dell’artista. Quelle che egli altrove ha chiamato “vissutezze” sarebbero il contenuto dell’opera. Quali esempi ci offre Colli a sostegno della sua tesi? A parte la generica affermazione in cui dice che non gli “sembra azzardato sostenere che qualcuno si sia comportato così”, per quanto riguarda il comportamento. Nel finale di un aforisma, non pubblicato in Dopo Nietzsche, presente nei suoi Quaderni postumi (La ragione errabonda, fr. 530n), parlando dell’arte intesa come allontanamento dal presente, Colli aggiungeva: “ciò è documentabile in generale, in Hölderlin e Leopardi, in Ariosto e Cervantes, in Mozart e Wagner; in certi casi poi è degna di meditazione la struggente immersione nel passato, come in Stendhal e Proust”. Questo breve elenco si completa con altre tre grandi anime dell’età moderna: Shakespeare, Beethoven e Dostoevskij, nominati in altri luoghi.
Mancavano nell’elenco precedente gli artisti figurativi, ma ora, grazie agli scritti appena pubblicati (Apollineo e dionisiaco), sappiamo che nel novero dei grandi devono essere inseriti: A. del Pollaiolo, Botticelli, Raffaello, Leonardo, Piero della Francesca, Tiziano, Michelangelo e altri, tutti interpretati secondo le categorie dell’apollineo e del dionisiaco.
Diventa chiaro ora l’aforisma, probabilmente scritto pensando proprio al Pollaiolo: “Il paesaggio toscano diventa carico di mistero nella pittura del Rinascimento: dietro si nasconde la vita dell’autore, i nessi personali sfuggono. In quel mistero si esprime la volontà di celarsi, il possesso si un’altra ricchezza” (DN 150). Cfr AD 169-170 [aforisma citato nel film di Marco Colli Giovanni senza pensieri].
Vincolati dal tema da rappresentare, agli artisti del Rinascimento, sembra dire Colli, non rimaneva altro spazio che il paesaggio per esprimere le proprie vissutezze. I contenuti della religione ebraico-cristiana mal si adattano all’espressione del dionisiaco. E’ dunque questo un esempio per giudicare ciò che è dionisiaco? Aver visto la “verità delle ultime cose” in una pianura (cfr. AD 169-170), ci lascia sorpresi, se dimentichiamo che si tratta di scritti giovanili.
Schopenhauer invece, distinguendo il significato reale da quello nominale, aveva visto nella quiete dei volti e nell’espressione dei santi e delle madonne la soppressione della volontà, il riflesso della più perfetta conoscenza (Il mondo come volontà e rappresentazione, § 48).
Dalle osservazioni di Colli, dobbiamo pensare che il genere del paesaggio offre la migliore occasione all’artista per esprimere le proprie vissutezze? E se un artista volesse esprimere il proprio vissuto con un’opera d’arte astratta, se volesse simbolizzare i ricordi dell’immediato attraverso l’espressionismo astratto, saremmo in grado, noi fruitori, di dire che qui viene espresso il dionisiaco? E con quali criteri? Se l'immediatodeve trovare un'espressione “, il semplice legame simbolico tra interiorità ed espressione non garantisce quella continuità che permetterebbe a noi fruitori di cogliere l'acme.
Prendiamo ancora Apollineo e dionisiaco. Qui egli vuole arrivare a un concetto di dionisiaco più vasto di quello dato da Nietzsche ne La nascita della tragedia. Questo concetto viene così definito da Colli: “esso è la fase di aspirazione intima di certi uomini eccezionali prima che essi giungano a qualsiasi espressione, l’impulso a superare tutto ciò che è umano … il dionisiaco individuale [e non collettivo] è interiorità pura, sentimento e volontà denudati da immagini” (AD 111).
Il dionisiaco così inteso è stato per Colli il criterio per giudicare i Sapienti e le grandi anime del mondo moderno. In questo atteggiamento egli accoglie il giudizio già espresso da Nietzsche, il quale aveva affermato: “Tutto ciò che ora chiamiamo cultura, educazione, civiltà, dovrà un giorno comparire davanti all’infallibile giudice Dioniso”. Rispetto agli scritti della maturità, in questi scritti postumi c’è l’orgoglio giovanile, quella certezza che nel tentativo di distinguersi dalla mediocrità stabilisce delle gerarchie nell’ambito delle “verità interiori” (AD 168).
Tuttavia, dal momento che è sempre stato Colli a farci riflettere, per questa occasione tocchiamo alcune questioni che rimangono aperte nel pensiero di Colli e le differenze rispetto agli scritti successivi, soprattutto in relazione al riconoscimento del valore espressivo di un’opera d’arte.
In Apollineo e dionisiaco Colli parla dell’arte apollinea, che definisce arte umana; essa, non essendo interiorità pura come il dionisiaco (sovrumana), è legata, per quanto riguarda la sua creazione, all’immagine, all’oggetto, che è il principio e punto di arrivo dell’attività artistica.
Negli aforismi dedicati all’arte in Dopo Nietzsche, Colli estende il dionisiaco a tutta l’arte senza alcuna distinzione per quanto riguarda il genere espressivo. E sarà la presenza del dionisiaco, recuperato attraverso una tecnica interiore, a determinare secondo lui l’arte vera; ed essendo il dionisiaco interiorità pura, negli aforismi di DN, l’arte perciò “non ha un oggetto”.
Ecco dunque la questione: non è tanto l’ascetismo o l’allontanamento dal presente il vero tema dell’estetica di Colli, quanto il carattere simbolico dell’arte dionisiaca. Dopo la corsa all’indietro, in direzione dell’immediato, l’artista si serve di oggetti di questo mondo per tradurre le gemme nascoste dal tessuto della vita.
Il nocciolo del problema è proprio questo: se l’arte non è in rapporto diretto con gli oggetti sensibili appartenenti al tessuto rappresentativo, non ha con essi un collegamento naturale, come è possibile scoprirne il valore espressivo in senso dionisiaco?
Quando Colli suggerisce alla critica musicale l’indicazione delle battute in cui si attinge il culmine della vita interiore del musicista (l’acme dell’opera d’arte), sa di poterlo fare benissimo per la musica. Qui estetica realistica e estetica idealistica non hanno nessuna competenza; non c’è nessuna imitazione e non c’è veramente bisogno di giudicare a partire dell’oggetto della rappresentazione.
Tuttavia, anche per quanto riguarda la musica, basti pensare ai giudizi di Nietzsche su Wagner, per comprendere quanto questo compito sia difficile. Cosa è una musica dionisiaca? Ognuno nella sua anima dice di sentirlo e saperlo con certezza. Lo stesso Colli, in questi scritti giovanili, dice che “l’intensità della commozione non è in rapporto con il valore dell’opera d’arte… Non solo ma si può essere ugualmente esaltati da una sinfonia di Beethoven e da un pezzo di musica da ballo…” (AD 168-169).
Colli ha dato un suggerimento (“non occorre altro per chi sappia seguire”) alla critica d’arte ma non un criterio. Insomma con gli scritti pubblicati una serie di questioni rimanevano aperte e questi scritti giovanili non aiutano affatto.
Noi possiamo comprendere e condividere ciò che Colli scrive a proposito di Wagner (considerato in AD musicista dionisiaco in opposizione a Verdi musicista umano): “Quello che si manifesta in Wagner, l’illusionismo…la falsificazione, la contraffazione, lo sconquasso premeditato di ogni archetipo interiore, di ogni lievità, di ogni gioco… l’esaltazione dell’oscuro, del torbido…ecc.” (DN 119). Però ciò ci dice che i giudizi di gusto non permettono di dire alcunché sul valore espressivo di un’opera d’arte. Nemmeno Kant è riuscito a risolvere la modalità del giudizio di gusto, se non appellandosi alla comunicabilità del giudizio basata sul senso comune. Ma il senso comune non rende oggettiva la necessità tra piacere e l’oggetto giudicato “bello” (cfr. Critica del Giudizio, §§ 18-22). Inoltre, giudicare secondo il piacere non consente di stabilire a priori quale oggetto debba accordarsi col gusto. Il giudizio di gusto puro si riduce alla fine a un piacere dovuto più all’accordo delle facoltà dell’animo che all’oggetto stesso (idem §§ 9 e 15). Questi sono il limiti di una critica del gusto: se non emerge dall'opera il “correlato oggettivo” (cfr. Schopenhauer, Mondo, III § 51), l'animo umano potrà giudicare “bello”, “dionisiaco”, “apollineo”, ecc., tutto ciò che si accorda con esso.
Prima conclusione: da parte del fruitore non è possibile avere un criterio, indipendente dal gusto.
A meno che non ci sia il riconoscimento generale di una “gerarchia” nell’ambito delle “verità interiori” (AD 168). Ricordiamo che Colli ha criticato Nietzsche quando questi aveva giudicato dionisiaca la scultura di Scopa e Prassitele, impensabile secondo lui in artisti del IV secolo! Lo “scopritore” del dionisiaco avrebbe dunque fallito il bersaglio. Invece Colli considerava dionisiaci i Prigioni di Michelangelo; per noi non è così.
Consideriamo ora la questione dalla parte dell’artista.
Il dionisiacoè l’impulso a superare tutto ciò che è umano”. Con ciò Colli si riferisce a una “esperienza di estasi sovrumana”, che gli uomini più grandi operano con distacco da tutto ciò che è alla portata di una collettività di uomini. Si tratta di un’attività spirituale che rivolge le proprie energie all’interiorità e disdegna ogni espressione, ogni creazione. Liberato da ogni immagine il dionisiaco è inteso dunque come “interiorità pura”. In Dopo Nietzsche, questa interiorità pura costituisce la grandezza d’animo, che muove in direzione opposta alla volontà di potenza
L’apollineo invece viene ad assumere un altro significato rispetto a quello di Nietzsche: esso è lo stadio creativo, l’espressione di un’attività spirituale, il momento in cui l’artista si realizza attraverso l’apparenza. Ma dovendo spiegare lo stato sognante dell’artista apollineo, lo stato interiore che precede l’espressione, Colli dice che anche in esso esiste un impulso di tipo dionisiaco, cioè una tendenza a superare ciò che è umano.
Ma la differenza sostanziale, rispetto agli aforismi di DN è questa: qui Colli pone una differenza tra l’arte umana e la creazione dionisiaca.
Omero, Dante, Shakespeare, i grandi artisti umani, mentre ci parlano della furia delle passioni umane, da esse, attraverso uno stato sognante, contemplativo, si distaccano. Essi creano attraverso l’umano, e a rigore per gli artisti umani non si dovrebbe parlare di dionisiaco, in quanto il loro punto di partenza e di arrivo è sempre un’immagine, un oggetto (AD 128-129). In DN la distinzione del genere umano-apollineo, scompare.
Ricordiamo che negli aforismi di DN Colli dice che la vera arte non ha un oggetto; e dunque, come si giunge con il solo impulso dionisiaco a esprimere qualcosa?
Il dionisiaco vero, secondo Colli, si manifesta in maniera differente: l’impulso all’interiorizzazione avviene spontaneamente, senza che un’immagine o un fatto vengano a determinarlo. Esso sorge da un disgusto supremo per l’umano e dall’aspirazione cosciente di volerlo superare. Agli spiriti dionisiaci non interessa la creazione, dal momento che i loro sforzi sono diretti all’interiorità. Se mai, aggiunge, essi si preoccupano di mantenere un comportamento coerente nella vita.
Per Colli dionisiaco in termini teoretici è colui che è riuscito a liberarsi completamente dell’astrazione. Ciò che porta al di là di essa è uno strappo, un distacco. Poiché l'arte non ha un oggetto, per Colli quindi l'artista che si immedesima nel suo oggetto, si esalta con la sua immagine, si immerge in modo intenso nel flusso delle rappresentazioni, si “illude sulla conquista delle scaturigini della vita” (cfr. La ragione errabonda, fr. 550). L'artista apollineo dunque non è sovrumano.
Colli non distingue i generi artistici, come aveva fatto Schopenhauer. In una teoria estetica, diventa arduo porre come origine dell'arte apollinea (in senso nietzscheano) il concetto di interiorità pura. In una teoria dell’arte in ragione dei generi espressivi bisognerebbe distinguere tra dionisiaco vissuto e dionisiaco contemplato. E a rigore, senza voler essere irriverenti, ciò di cui lui parla, il dionisiaco vissuto, le vissutezze, è invece il tipico atteggiamento “artistico”, che giunge poi alla simbolizzazione innaturale, mentre quello contemplato, in cui il distacco sopraggiunge dal contatto diretto con la vita, è quello più filosofico.
Conclusione

Per il carattere simbolico della sua espressione, il dionisiaco, nella sua unica formulazione di “interiorità pura”, lascia problematica e non risolta quella continuità, che Colli cercava (cfr. AD 189) tra interiorità ed espressione, che invece dovrebbe garantire la sua autenticità; e per ciò risulta fuorviante se estesa a tutta l’arte.
Colli ha esteso il misticismo nordico (DN 179), che si esprime in modo eccellente nella musica (quella romantica però, in cui più che alla coincidentia oppositorum dionisiaca assistiamo all’alternarsi di gioia e dolore; cfr. PHK 204n), a tutta l’arte, confondendo i generi espressivi. Mentre ha lasciato fuori dal suo ambito il misticismo mediterraneo, che richiede di essere compreso e spiegato nella trasfigurazione visionaria, apollinea, di vissutezze legate a individui, oggetti, immagini di questo mondo.
Insomma se l’opera deve essere secondo il contenuto dionisiaco “simbolo della duplice natura del mondo” (DN 150), l’arte figurativa, umana, è sicuramente la sua espressione più visibile.
Nell’introduzione al secondo volume della Sapienza greca, Colli si chiede: come si comunica la più alta sapienza di Dioniso? La risposta è illuminante: “col rappresentare l’arresto di un’azione in una istantaneità sconvolgente, in un quadro culminante […] Un esempio è descrizione dell’attimo in cui Core fu rapita… nell’istante si manifesta allo sguardo la contraddizione metafisica di Dioniso: bellezza e crudeltà coincidono” (SG II 21).
Quindi, o il dionisiaco non può avere una sua rappresentazione adeguata, e nemmeno si potrà limitare alla sola musica, oppure bisogna correggere il suo concetto: non può essere inteso solo come “interiorità pura”, a meno che una faccenda personale (che a piacere ognuno può considerare divina) voglia diventare il segreto del mondo.

Addenda

Il dionisiaco inteso come interiorità pura, privo di contenuto, rischia di rimanere una faccenda “personale”. Se l'arte non ha un oggetto, allora qualsiasi oggetto di questo mondo può diventare il simbolo di una vissutezza. Ma legandosi al simbolico, l'artista non offre a chi vede, ascolta o legge la possibilità di intuire il dionisiaco, di cui pensa di aver caricato l'oggetto.
Quando Nietzsche in Genealogia della morale (III 4) afferma che “un perfetto e completo artista è staccato per l'eternità dal ‘reale’, dall'effettuale”, pensiero che Colli condivide, si riferiva ad artisti come Omero e Goethe, i quali non avrebbero creato i loro capolavori se fossero stati i loro eroi. Anche Colli condanna la tipica velleità dell'artista moderno che consiste nel voler vivere ciò che rappresenta (e aggiunge che è proprio per questo gli interessa l'arte). Quindi, io penso che attraverso il concetto di dionisiaco come interiorità pura si rischi il “personale” nell'arte.
Il dionisiaco, come interiorità pura, trova l'espressione più appropriata nella musica. Essa è il genere artistico per il dionisiaco vissuto. Gli altri generi artistici – e a questo proposito Schopenhauer ha visto giusto ponendo le differenze – sono legati al dionisiaco contemplato o apollineo. Quest'altro tipo di interiorità, secondo me, è più “filosofica” della precedente. Si intuisce l'essenza della vita nel mondo, non nelle ascetiche e mistiche vissutezze personali; che tra l'altro non possono costituire un fondamento o un principio per la metafisica ma debbono essere limitate a una gnoseologia.
Io credo che quanto più l'interiorità pura risulti condizionata dall'individuazione tanto più diventa difficile trovare ciò che ne costituisce l'análogon – il simbolo invece non ha nessun rapporto “naturale” con l'interiorità. Del resto le grandi anime hanno vissuto il dionisiaco esprimendolo in forme apollinee ad esso “concatenate”.
Secondo me è possibile il riconoscimento generale di una “gerarchia” nell’ambito delle “verità interiori” (cfr. AD 168), solo se si chiarisce il contenuto del dionisiaco. 
Leggo dal Manuale di armonia (Milano 1988) di Arnold Schönberg: “L'attività artistica è istintiva; poca influenza vi prende la coscienza, ed egli ha la sensazione che ciò che fa gli sia dettato da dentro, che egli lo faccia solo obbedendo alla volontà di qualche forza che è in lui e di cui ignora le leggi. Egli non è che l'esecutore di una volontà a lui celata, dell'istinto, dell'inconscio che è in lui... a cui deve obbedire”. Il risultato di questo impulso è la musica dodecafonica, la musica seriale, per sua essenza concettuale. Ma diventa difficile "confutarla" quando il musicista dichiara questo: “Chi avrebbe mai l'ardire di voler distinguere nell'istinto, nell'inconscio, il giusto dal falso?” (pp.. 521-522). Senza un contenuto è possibile giustificare qualsiasi forma.
Si leggano i frammenti poetici di Colli, presenti ne La ragione errabonda, si mettano a confronto le poesie con l'abbozzo della tragedia su Alessandro, si vedrà chiaramente che il verso colliano è veramente dionisiaco quando scrive su Alessandro piuttosto che quando rievoca vissutezze personali.



lunedì 21 ottobre 2013

Apollineo e dionisiaco


Scritto in occasione dell'incontro organizzato da Angelo Tonelli: “Il giovane Colli. Simposio in onore di Enrico Colli curatore delle opere postume di Giorgio Colli”- Lerici 26 gennaio 2013 (modificato: ottobre 2013)

La recente pubblicazione di alcuni scritti giovanili di Giorgio Colli, nel volume Apollineo e Dionisiaco (Adelphi, Milano 2010), ci permette di chiarire il pensiero del filosofo sull’arte, con alcuni esempi, che integrano e spiegano gli aforismi dedicati all’arte contenuti nella sezione “Arte è ascetismo” di Dopo Nietzsche (1974).
Tra gli studiosi di Colli queste note, che comprendono quelle sull’arte figurativa erano molto attese, visto che durante il Convegno pisano nel novembre del 2004 ne era stata data notizia.
Il problema centrale della teoria di Colli riguarda l’espressione del dionisiaco. Qui Colli segue Nietzsche. Ecco cosa scrive nel ’72: “Grande scoperta di Nietzsche sull’arte: non si deve considerare la rappresentazione come tale…, ma di vederla in relazione a un fondo dionisiaco… Questo è l’unico metro per scoprire [c.n.] la grande arte…”. (La ragione errabonda, fr.505).
Non ci resta che capire come si misura la vera grande arte; poiché come scoprirla lo sappiamo già.

Riassumiamo brevemente quanto sostiene Colli negli aforismi dedicati all’arte contenuti nella sezione “Arte è ascetismo” di Dopo Nietzsche (1974). Anzitutto per lui “l’arte non ha un oggetto”. L’artista non crea nulla, non imita nulla, non inventa, ma ritrova qualcosa nel passato: estrae gemme nascoste dal tessuto della vita. Per cui a rigore non c’è un oggetto, reale e ideale che sia, che l’arte debba necessariamente esprimere. Ogni estetica che parte dall’oggetto della rappresentazione artistica, percorre una strada sbagliata.
Colli precisa che “artista” non è chi “scrive poesie, o le cui poesie sono considerate arte per giudizio generale, o di alcuni esperti, bensì colui che si comporta nel modo” che spiega: l’artista è colui che sapendo retrocedere nel passato recupera “miracolosamente” le rappresentazioni nascenti, quegli attimi inesprimibili che non si trovano nella coscienza quotidiana dell’uomo. Intesi come primo ricordo dell’immediatezza della vita, questi attimi sono il materiale onde si costituisce l’individuo, per cui il recupero è possibile per chi sappia regredire, secondo la traccia del tempo invertito, in direzione di una condizione che precede quella dell’individuazione, l’immediato.
La tecnica dell’artista non consiste nelle capacità espressive, nelle abilità manuali, bensì nella capacità di rievocare il passato: si tratta dunque di una tecnica interiore, definita ascetica.
Il distacco dalla vita attuale, al di là del prospettive contingenti relative alla psicologia dell’artista, è decisivo e rivelatore della vera arte.
L’arte inverte il corso del tempo, la sua spinta dal presente verso il passato è contraria alla spinta cosmologica. Essa toglie la maschera alla necessità che plasma incontrastata la nostra vita, si oppone al trascinamento temporale, al flusso delle cose e ai loro nessi; si oppone al tralignamento connaturato a ogni manifestazione della realtà vivente, che appare come esistenza organica, ordinata, corposa, mentre è astrazione, anchilosato cristallizzarsi di categorie.
L’artista ha lacerato le ragnatele dell’astrazione, strappato l’ordito dell’ottimismo, in cui la necessità dissimula la sua violenza con il miraggio della finalità.
Come profondità o come passato l’arte recupera un universo in cui la necessità si mostra nella sua fluidità e il giuoco nel suo trionfo, un mondo in cui regna la mania, e la vita appare privata del dolore dell’individuazione. Una sorta di “infanzia”, in cui gli attimi, componenti elementari, che agglutinandosi fanno sorgere l’individuo, si liberano nella loro incandescente veemenza.
Chi riesce a demolire la falsa corposità del mondo, a liberarsi dallo spettro della necessità e va oltre, trova la violenza mescolata al gioco (Dioniso).
L’arte non assomiglia a nulla di questo mondo: quasi tutte le perfezioni e le squisitezze di questo mondo si gustano nell’arte, proprio perché qui la vita appare depurata dalla violenza.
Il cammino dell’artista ascendente, dal presente al passato di ricordo in ricordo, in direzione dell’immediato, ha poi un riflusso, in cui l’artista comincia dire quello che ha veduto. Dopo aver vissuto nel passato, ora vuole ritornare per raggiungere con la sua opera gli altri uomini. Ora opera come un demiurgo, arricchisce la trama delle rappresentazioni con la sua espressione artistica. Nell’opera d’arte tutti gli elementi della cosmologia (tempo, spazio, numero, causalità, necessità) sono accettati. Tuttavia gli attimi recuperati, date le differenti condizioni rappresentative che caratterizzano la vita ascendente da quella discendente, non sono riprodotti fedelmente: può accadere per esempio che quanto era iniziale nel recupero risulti finale nell’opera.
L’aspetto interessante di questa corsa all’indietro dell’artista è che l’immediato deve trovare un’espressione nel cammino discendente: è questa l’acme dell’opera d’arte. Prezioso suggerimento che la critica d’arte dovrebbe far proprio.(Dopo Nietzsche, pp. 113-128)

Dunque il contenuto dell’arte è il dionisiaco. Qui, dove la violenza è mescolata al giuoco, è assente ogni condizione astratta. Quali sono i significati intrinseci di Dioniso? Sappiamo che è il dio delle contraddizioni, di tutte le contraddizioni (gioia e dolore, caso e necessità, estasi e spasimo, ecc.)
Se l’arte vera deve essere espressione del dionisiaco dovrebbe presentare l’ambiguità primordiale, carattere contraddittorio del dionisiaco.
In Colli appare evidente che il “contenuto dionisiaco”, che può essere espresso in forme, colori, suoni, volumi, parole, è qualcosa che riguarda la vita interiore dell’artista. Quelle che egli altrove ha chiamato “vissutezze” sarebbero il contenuto dell’opera. Quali esempi ci offre Colli a sostegno della sua tesi? A parte la generica affermazione in cui dice che non gli “sembra azzardato sostenere che qualcuno si sia comportato così”, per quanto riguardo il comportamento. Nel finale di un aforisma, non pubblicato in Dopo Nietzsche, presente nei suoi Quaderni postumi (La ragione errabonda, fr.530n), parlando dell’arte intesa come allontanamento dal presente, Colli aggiungeva: “ciò è documentabile in generale, in Hölderlin e Leopardi, in Ariosto e Cervantes, in Mozart e Wagner; in certi casi poi è degna di meditazione la struggente immersione nel passato, come in Stendhal e Proust”. Questo breve elenco si completa con altre tre grandi anime dell’età moderna: Shakespeare, Beethoven e Dostoevskij, nominati in altri luoghi.
Mancavano nell’elenco precedente gli artisti figurativi, ma ora, grazie agli scritti appena pubblicati (Apollineo e dionisiaco), sappiamo che nel novero dei grandi devono essere inseriti: A. del Pollaiolo, Botticelli, Raffaello, Leonardo, Piero della Francesca, Tiziano, Michelangelo e altri, tutti interpretati secondo le categorie dell’apollineo e del dionisiaco.
Diventa chiaro ora l’aforisma, probabilmente scritto pensando proprio al Pollaiolo: “Il paesaggio toscano diventa carico di mistero nella pittura del Rinascimento: dietro si nasconde la vita dell’autore, i nessi personali sfuggono. In quel mistero si esprime la volontà di celarsi, il possesso si un’altra ricchezza” (DN 150). Cfr AD 169-170 [aforisma citato nel film di Marco Colli Giovanni senza pensieri].
Vincolati dal tema da rappresentare, agli artisti del Rinascimento, sembra dire Colli, non rimaneva altro spazio che il paesaggio per esprimere le proprie vissutezze. I contenuti della religione ebraico-cristiana mal si adattano all’espressione del dionisiaco. E’ dunque questo un esempio per giudicare ciò che è dionisiaco? Aver visto la “verità delle ultime cose” in una pianura (cfr.AD 169-170), ci lascia sorpresi, se dimentichiamo che si tratta di scritti giovanili.
Schopenhauer invece, distinguendo il significato reale da quello nominale, aveva visto nella quiete dei volti e nell’espressione dei santi e delle madonne la soppressione della volontà, il riflesso della più perfetta conoscenza (Il mondo come volontà e rappresentazione, § 48).
Dalle osservazioni di Colli, dobbiamo pensare che il genere del paesaggio offre la migliore occasione all’artista per esprimere le proprie vissutezze? E se un artista volesse esprimere il proprio vissuto con un’opera d’arte astratta, se volesse simbolizzare i ricordi dell’immediato attraverso l’espressionismo astratto, saremmo in grado, noi fruitori, di dire che qui viene espresso il dionisiaco? E con quali criteri? Se l'immediato “deve trovare un'espressione “, il semplice legame simbolico tra interiorità ed espressione non garantisce quella continuità che ci permetterebbe a noi fruitori di cogliere l'acme.

Prendiamo ancora Apollineo e dionisiaco. Qui egli vuole arrivare a un concetto di dionisiaco più vasto di quello dato da Nietzsche ne La nascita della tragedia. Questo concetto viene così definito da Colli: “esso è la fase di aspirazione intima di certi uomini eccezionali prima che essi giungano a qualsiasi espressione, l’impulso a superare tutto ciò che è umano … il dionisiaco individuale [e non collettivo] è interiorità pura, sentimento e volontà denudati da immagini” (AD 111).
Il dionisiaco così inteso è stato per Colli il criterio per giudicare i sapienti e le grandi anime del mondo moderno. In questo atteggiamento egli accoglie il giudizio già espresso da Nietzsche, il quale aveva affermato: “Tutto ciò che ora chiamiamo cultura, educazione, civiltà, dovrà un giorno comparire davanti all’infallibile giudice Dioniso”. Rispetto agli scritti della maturità, in questi scritti postumi c’è l’orgoglio giovanile, quella certezza che nel tentativo di distinguersi dalla mediocrità stabilisce delle gerarchie nell’ambito delle “verità interiori” (AD 168).
Tuttavia, siccome è sempre stato Colli a farci riflettere, per questa occasione tocchiamo alcune questioni che rimangono aperte nel pensiero di Colli e le differenze che ci sono rispetto agli scritti successivi, soprattutto in relazione al riconoscimento del valore espressivo di un’opera d’arte.
In Apollineo e dionisiaco Colli parla dell’arte apollinea, che definisce arte umana; essa, non essendo interiorità pura come il dionisiaco (sovrumana), è legata, per quanto riguarda la sua creazione, all’immagine, all’oggetto, che è il principio e punto di arrivo dell’attività artistica.
Negli aforismi dedicati all’arte in Dopo Nietzsche, Colli estende il dionisiaco a tutta l’arte senza alcuna distinzione per quanto riguarda il genere espressivo. E sarà la presenza del dionisiaco, recuperato attraverso una tecnica interiore, a determinare secondo lui l’arte vera; ed essendo il dionisiaco interiorità pura, negli aforismi di DN, l’arte perciò “non ha un oggetto”.
Ecco dunque la questione: non è tanto l’ascetismo o l’allontanamento dal presente il vero tema dell’estetica di Colli, quanto il carattere simbolico dell’arte dionisiaca. Dopo la corsa all’indietro, in direzione dell’immediato, l’artista si serve di oggetti di questo mondo per tradurre le gemme nascoste dal tessuto della vita.
Il nocciolo del problema è proprio questo: se l’arte non è in rapporto diretto con gli oggetti sensibili appartenenti al tessuto rappresentativo, non ha con essi un collegamento naturale, come è possibile scoprirne il valore espressivo in senso dionisiaco?
Quando Colli suggerisce alla critica musicale, l’indicazione delle battute in cui si attinge il culmine della vita interiore del musicista (l’acme dell’opera d’arte), sa di poterlo fare benissimo per la musica. Qui estetica realistica e estetica idealistica non hanno nessuna competenza; non c’è nessuna imitazione e non c’è veramente bisogno di giudicare a partire dell’oggetto della rappresentazione.
Tuttavia, anche per quanto riguarda la musica, basti pensare ai giudizi di Nietzsche su Wagner, per comprendere quanto questo compito sia difficile. Cosa è una musica dionisiaca? Ognuno nella sua anima dice di sentirlo e saperlo con certezza. Lo stesso Colli, in questi scritti giovanili, dice che “l’intensità della commozione non è in rapporto con il valore dell’opera d’arte… Non solo ma si può essere ugualmente esaltati da una sinfonia di Beethoven e da un pezzo di musica da ballo…” (AD 168-169).
Colli ha dato un suggerimento (“non occorre altro per chi sappia seguire”) alla critica d’arte ma non un criterio. Insomma con gli scritti pubblicati una serie di questioni rimanevano aperte e questi scritti giovanili non aiutano affatto.

Noi possiamo comprendere e condividere ciò che Colli scrive a proposito di Wagner (considerato in AD musicista dionisiaco in opposizione a Verdi musicista umano): “Quello che si manifesta in Wagner, l’illusionismo…la falsificazione, la contraffazione, lo sconquasso premeditato di ogni archetipo interiore, di ogni lievità, di ogni gioco… l’esaltazione dell’oscuro, del torbido…ecc.” (DN 119). Però ciò ci dice che i giudizi di gusto non permettono di dire alcunché sul valore espressivo di un’opera d’arte. Nemmeno Kant è riuscito a risolvere la modalità del giudizio di gusto, se non appellandosi alla comunicabilità del giudizio basata sul senso comune. Ma il senso comune non rende oggettiva la necessità tra piacere e l’oggetto giudicato “bello” (cfr. Critica del Giudizio, §§ 18-22). Inoltre, giudicare secondo il piacere non consente di stabilire a priori quale oggetto debba accordarsi col gusto. Il giudizio di gusto puro si riduce alla fine a un piacere dovuto più all’accordo delle facoltà dell’animo che all’oggetto stesso (idem §§ 9 e 15). Fine della critica del gusto; che può giudicare come vuole: “bello”, “dionisiaco”, “apollineo”, ecc., cioè tutto ciò che si accorda con l’anima.
Prima conclusione: da parte del fruitore non è possibile avere un criterio, indipendente dal gusto.
A meno che non ci sia il riconoscimento generale di una “gerarchia” nell’ambito delle “verità interiori” (AD 168). Ricordiamo che Colli ha criticato Nietzsche quando questi aveva giudicato dionisiaca la scultura di Scopa e Prassitele, impensabile secondo lui in artisti del IV secolo! Lo “scopritore” del dionisiaco avrebbe dunque fallito il bersaglio. Invece Colli considerava dionisiaci i Prigioni di Michelangelo; per noi non è così.

Consideriamo ora la questione dalla parte dell’artista.
Il dionisiaco “è l’impulso a superare tutto ciò che è umano”. Con ciò Colli si riferisce a una “esperienza di estasi sovrumana”, che gli uomini più grandi operano con distacco da tutto ciò che è alla portata di una collettività di uomini. Si tratta di un’attività spirituale che rivolge le proprie energie all’interiorità e disdegna ogni espressione, ogni creazione. Liberato da ogni immagine il dionisiaco è inteso dunque come “interiorità pura”. In Dopo Nietzsche, questa interiorità pura costituisce la grandezza d’animo, che muove in direzione opposta alla volontà di potenza
L’apollineo invece viene ad assumere un altro significato rispetto a quello nietzscheano; esso è lo stadio creativo, l’espressione di un’attività spirituale, il momento in cui l’artista si realizza attraverso l’apparenza. Ma dovendo spiegare lo stato sognante dell’artista apollineo, lo stato interiore che precede l’espressione, Colli dice che anche in esso esiste un impulso di tipo dionisiaco, cioè una tendenza a superare ciò che è umano.
Ma la differenza sostanziale, rispetto agli aforismi di DN è questa: qui Colli pone una differenza tra l’arte umana e la creazione dionisiaca.
Omero, Dante, Shakespeare, i grandi artisti umani, mentre ci parlano della furia delle passioni umane, da esse, attraverso uno stato sognante, contemplativo, se ne distaccano. Essi creano attraverso l’umano, e a rigore per gli artisti umani non si dovrebbe parlare di dionisiaco, in quanto il loro punto di partenza e di arrivo è sempre un’immagine, un oggetto (AD 128-129). In DN la distinzione del genere umano-apollineo, scompare.
Ricordiamo che negli aforismi di DN Colli dice che la vera arte non ha un oggetto, è dunque, come si giunge con il solo impulso dionisiaco a esprimere qualcosa?
Il dionisiaco vero, secondo Colli, si manifesta in maniera differente: l’impulso all’interiorizzazione avviene spontaneamente, senza che un’immagine o un fatto vengano a determinarlo. Esso sorge da un disgusto supremo per l’umano e dall’aspirazione cosciente di volerlo superare. Agli spiriti dionisiaci non interessa la creazione, dal momento che i loro sforzi sono diretti all’interiorità. Se mai, aggiunge, essi si preoccupano di mantenere un comportamento coerente nella vita.

Per Colli “dionisiaco” in termini teoretici è colui che è riuscito a liberarsi completamente dell’astrazione. Ciò che porta al di là di essa è uno strappo, un distacco. Siccome l'arte non ha un oggetto, per Colli quindi l'artista che si immedesima nel suo oggetto, si esalta con la sua immagine, si immerge in modo intenso nel flusso delle rappresentazioni, si “illude sulla conquista delle scaturigini della vita” (cfr. La ragione errabonda, fr. 550). L'artista apollineo dunque non è sovrumano.
Colli non distingue i generi artistici, come aveva fatto Schopenhauer. In una teoria estetica, diventa arduo porre come origine dell'arte apollinea (in senso nietzscheano) il concetto di interiorità pura. In una teoria dell’arte in ragione dei generi espressivi bisognerebbe distinguere tra dionisiaco vissuto e dionisiaco contemplato. E a rigore, senza voler essere irriverenti, ciò di cui lui parla, il dionisiaco vissuto, le vissutezze, è invece il tipico atteggiamento “artistico”, che giunge poi alla simbolizzazione innaturale, mentre quello contemplato, in cui il distacco sopraggiunge dal contatto diretto con la vita, è quello più filosofico.

Conclusione
Dunque, per il carattere simbolico della sua espressione, il dionisiaco, nella sua unica formulazione di “interiorità pura”, lascia problematica e non risolta quella continuità, che Colli cercava (cfr. AD 189) tra interiorità ed espressione, che invece dovrebbe garantire la sua autenticità; e per ciò risulta fuorviante se estesa a tutta l’arte.
Colli ha esteso il misticismo nordico (DN 179), che si esprime in modo eccellente nella musica, (quella romantica però, in cui più che alla coincidentia oppositorum dionisiaca assistiamo all’alternarsi di gioia e dolore;cfr. PHK 204n), a tutta l’arte, confondendo i generi espressivi. Mentre ha lasciato fuori dal suo ambito il misticismo mediterraneo, che richiede di essere compreso e spiegato nella trasfigurazione visionaria, apollinea, di vissutezze legate a individui, oggetti, immagini di questo mondo.
Insomma se l’opera deve essere secondo il contenuto dionisiaco “simbolo della duplice natura del mondo” (DN 150), l’arte figurativa, umana, è sicuramente la sua espressione più visibile.
Nell’introduzione al secondo volume della Sapienza greca, Colli si chiede: come si comunica la più alta sapienza di Dioniso? La risposta è illuminante: “col rappresentare l’arresto di un’azione in una istantaneità sconvolgente, in un quadro culminante […] Un esempio è descrizione dell’attimo in cui Core fu rapita… nell’istante si manifesta allo sguardo la contraddizione metafisica di Dioniso: bellezza e crudeltà coincidono” (SG II 21).
Quindi, o il dionisiaco non può avere una sua rappresentazione adeguata, e nemmeno si potrà limitare alla sola musica, oppure bisogna correggere il suo concetto: non può essere inteso solo come “interiorità pura”, a meno che una faccenda personale (che a piacere ognuno può considerare divina) voglia diventare il segreto del mondo.


Lettera ad Angelo Tonelli
Carissimo Angelo,
spero che questi chiarimenti servano a far comprendere quanto scrivo nella relazione, che pure ho limato in qualche punto.
Il dionisiaco inteso come interiorità pura, privo di contenuto, rischia di rimanere una faccenda “personale”. Se l'arte non ha un oggetto, allora qualsiasi oggetto di questo mondo può diventare il simbolo di una vissutezza. Ma legandosi al simbolico, l'artista non offre a chi vede, ascolta o legge la possibilità di intuire il dionisiaco, di cui pensa di aver caricato l'oggetto.
Quando Nietzsche in Genealogia della morale (III 4) afferma che “un perfetto e completo artista è staccato per l'eternità dal “reale”, dall'effettuale”, pensiero che Colli condivide, si riferiva ad artisti come Omero e Goethe, i quali non avrebbero creato i loro capolavori se fossero stati i loro eroi. Anche Colli condanna la tipica velleità dell'artista moderno che consiste nel voler vivere ciò che rappresenta (e aggiunge che è proprio per questo gli interessa l'arte). Quindi, io penso che attraverso il concetto di dionisiaco come interiorità pura si rischi il “personale” nell'arte.
Il dionisiaco, come interiorità pura, trova l'espressione più appropriata nella musica. Essa è il genere artistico per il dionisiaco vissuto. Gli altri generi artistici – e a questo proposito Schopenhauer ha visto giusto ponendo le differenze – sono legati al dionisiaco contemplato o apollineo. Quest'altro tipo di interiorità, secondo me, è più “filosofica” della precedente. Si intuisce nel mondo l'essenza della vita, non nelle ascetiche e mistiche vissutezze personali; che tra l'altro non possono costituire un fondamento o un principio per la metafisica ma debbono essere limitate a una gnoseologia.
Io credo che quanto più l'interiorità pura risulti condizionata dall'individuazione tanto più diventa difficile trovare ciò che ne costituisce l'análogon – il simbolo invece non ha nessun rapporto “naturale” con l'interiorità. Del resto le grandi anime hanno vissuto il dionisiaco esprimendolo in forme apollinee ad esso “concatenate”.
Secondo me è possibile il riconoscimento generale di una “gerarchia” nell’ambito delle “verità interiori” (cfr. AD 168), solo se si chiarisce il contenuto del dionisiaco.
Leggo dal Manuale di armonia (Milano, il Saggiatore 1988) di Arnold Schönberg: “L'attività artistica è istintiva; poca influenza vi prende la coscienza, ed egli ha la sensazione che ciò che fa gli sia dettato da dentro, che egli lo faccia solo obbedendo alla volontà di qualche forza che è in lui e di cui ignora le leggi. Egli non è che l'esecutore di una volontà a lui celata, dell'istinto, dell'inconscio che è in lui... a cui deve obbedire”. Il risultato di questo impulso è la musica dodecafonica, la musica seriale, per sua essenza concettuale. Ma diventa difficile “confutarla” quando il musicista dichiara questo: “Chi avrebbe mai l'ardire di voler distinguere nell'istinto, nell'inconscio, il giusto dal falso?” (pagg. 521-522). Senza un contenuto è possibile giustificare qualsiasi forma.
Si leggano i frammenti poetici di Colli, presenti ne La ragione errabonda, si mettano a confronto le poesie con l'abbozzo della tragedia su Alessandro, si vedrà chiaramente che il verso colliano è veramente dionisiaco quando scrive su Alessandro piuttosto che quando rievoca vissutezze personali.