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giovedì 6 dicembre 2012

Colli come educatore

Capitolo II

23. Con l'editoria Colli non vuole raccogliere schiere di lettori. Di lui si può dire ciò che disse Nietzsche a proposito di Eraclito: «il suo agire non si rivolge mai a un «pubblico», all'applauso delle masse e al coro osannante dei contemporanei» (PHG 304). L'EAC è un mezzo adeguato, un'astuzia «per fare un cenno alla natura di buon metallo e tenere distante quella volgare» (DN 172); una maschera, con cui incuriosire, per raccogliere intorno a sé pochi discepoli. Per lui, che pensa ai sodalizi esoterici dell'epoca sapienziale, quello che conta è «agire su certi uomini» (RE 93). Colli si rivolge agli individui non-finalistici, a coloro che sanno trarre pensieri da se stessi e pensano senza finalità, che esprimono una natura antipolitica e antieconomica, a coloro che comunicano e mantengono vive le espressioni della vita. A questi pochi Colli si rivolge per educarli a non sottomettersi, ma a serrarsi in una «società cultura­le» staccata e autonoma dallo Stato (RE 87), in cui domini la sfera dell'amicizia e il colloquio diretto. Egli non vuole dunque incidere sulla realtà storica, tanto meno esercitare il dominio politico-monda­no, con la sua azione mira a qualcosa di più grande: alla cultura fatta dai migliori.

24. Essenza di questa società ristretta di uomini è la cultura intesa come vita vivente (PEAC 140). Il Simposio platonico è l'emblema di ciò che Colli intende: l'incontro di uomini eccellenti «uniti non da una attività comune, ma da una qualità dell'ani­ma: la grandezza» (PEAC 25), che dialogano su un problema a proposito del quale ognuno dice ciò che ha sentito nella propria interiorità. 
25. Mentre da più parti ci insegnano a «dare via il nostro cuore allo Stato, al guadagno, alla vita socia­le o alla scienza soltanto per non possederlo più» (SE 405), Colli con la sua azione ha cercato di suscitare «una concreta vita filosofica associata» (RE 88). Poiché nonostante l'ottundimento, la pi­grizia e i narcotizzanti miti del mondo moderno, egli percepisce nel presente una certa vitalità e quindi «la possibilità della chiarezza» (RE 116). Non ci sono dogmi da rispettare, tuttavia una «cer­chia di doveri» si imporranno naturalmente a chi avrà compreso la sua azione. A dispetto dei seguaci del divenire Colli ci insegna che il ritorno alla sapienza è ancora possibile: «ciò che alcuni uomini possono pensare e dire l'uno all'altro può vivere anche adesso - poco contano i mutamenti delle società e degli Stati» (DN 82).
26. Come Nietzsche, Colli mira alla vita e non a una conoscenza erudita. Tuttavia, mentre l'azione di Nietzsche è dionisiaca, in quanto penetra nell'indi­viduo per scuoterlo e liberarlo, quella di Colli è apollinea, indiretta, «colpisce da lontano». In que­sta occasione i suoi dardi sono gli autori classici, ottimi per lanciare una sfida «a chi ha ancora qualcosa da decidere, sulla sua vita e sul suo atteg­giamento di fronte alla cultura» (PEAC 139). A costoro Colli offre gli individui della grandezza, i casi più puri, gli archetipi umani per conoscere qualcosa sul conto della vita (RE 122). 
27. Sapere che sono realmente esistiti, sentire ac­canto a se i grandi del passato e nelle loro parole trovare la conferma alle proprie intuizioni, è un'esperienza decisiva per una nobile e giovane anima. Il sentimento che accompagna questo in­contro è un insieme di felicità, di consolazione, di speranza, di liberazione. E' una catarsi, che nei migliori con gli anni perdura e si intensifica fino al punto che diventa impossibile vivere senza venera­re coloro che hanno saputo ricondurre all'interiori­tà. 

Colli come educatore, II

Riprendo a trascrivere i paragrafi del mio libro 

Capitolo II Capire Nietzsche



21. Quella che viene celebrata oggi nelle Universi­tà, nei convegni, nelle riviste, nelle pubblicazioni non è vera filosofia (cfr. DN 52; RE 92). La diagno­si di Colli è la stessa descritta da Nietzsche: «Il filosofare moderno ha sempre un colorito politico e poliziesco, è indirizzato dai governi, dalle Chiese, dalle accademie, dai costumi, dalle mode, dalla viltà degli uomini, alla sola conquista dell' appa­renza erudita» (PHG 278). Ridotta così la filosofia non ha più niente di vitale, tanto meno può assume­re il ruolo, che le compete, di unificatrice della cultura. Di fronte a questa situazione Colli non si perde in nessuna compiaciuta disperazione, in nes­suna cinica vendetta; nel suo atteggiamento si rico­nosce invece la forza del filosofo, la forza di chi si impone un arduo compito: mantenere alto il senso della cultura proposto dai suoi maestri, poiché il vero «capire» per lui equivale a un «fare» qualcosa nella direzione che essi hanno indicato. Colli sa che non si possono sollevare le sorti della cultura senza istituire una «educazione nuova». Le linee essenziali con cui inizia a lottare sono chiara­mente all'opposto di quanto è stato imposto finora dallo Stato, al quale, in quanto forza ostile alla vera cultura, come prima regola, bisogna sottrarre l'edu­cazione (RE 78, 87). 

22. L’«Enciclopedia di autori classici» (EAC) fu lo strumento della sua azione. Il valore di questa impresa sta nella scelta: i classici sono «coloro la cui espressione ha raggiunto un'eccellenza non effimera nel campo della grandezza umana» (PEAC 147). Appartengono a questa schiera anzitutto gli ispiratori del progetto, Schopenhauer e Nietzsche, e poi molti degli autori che stanno alla base della loro formazione intellettuale: i Greci, i mistici indiani, Spinoza, Voltaire, Goethe, Hölderlin, Stendhal, Burckhardt, ecc. Proponendo e difenden­do questa cultura Colli si è concesso quel privilegio della gioventù di cui parla Nietzsche: il «privilegio di una valorosa e temeraria onestà e l'entusiasman­te conforto della speranza» (HL 353). 
La grandezza è l'essenza che unifica le espressioni poetiche, storiche, filosofiche, morali, scientifiche di questi autori, al di là delle differenze di talento o abilità individuali. Con esse è possibile «avvicinar­si alla vera cultura» (PEAC 11). E poiché «ciò che gradua il valore assoluto dell'espressione umana è la sua partecipazione al concetto di grandezza» (RE 122), appare naturale l'assenza dall'Enciclopedia di certi miti moderni (Hegel, Marx, Heidegger). Stupisce forse la presenza di alcuni autori venuti dopo Nietzsche (Freud, Bergson), ma con alcune osservazioni di Colli (RE 152, 206, 246, 293) è possibile, se occorre, ristabilire prontamente le gerarchie. 

Archivio Colli

Con enorme piacere salutiamo il ritorno del sito dedicato a Giorgio Colli: http://www.giorgiocolli.it/it




venerdì 9 marzo 2012

Colli come educatore, I

I

DISCIPLINA FILOSOFICA


1. Con Giorgio Colli la grande filosofia rivive un'altra stagione aurea. Dopo Nietzsche, soltanto lui incute rispetto e ammirazione, per profondità e lucidità di pensiero. Tutto ciò che egli esprime, attraverso la vita e l'opera, è segnato dalla grandez­za; ogni sua posizione nei confronti della cultura, ogni suo giudizio sulla vita e sugli uomini, costitui­scono una lezione di ineguagliabile valore. Attraverso alcuni esempi noi cercheremo di dimostrare ciò.

2. Degno di ammirazione è anzitutto il modo in cui sceglie i suoi educatori. Un «fiuto innato» per la grandezza e la veridicità lo guida sin da giovanis­simo verso gli scritti di coloro che hanno scoperto al di là dell' apparenza la trama nascosta della vita: Platone, Nietzsche, Schopenhauer, Spinoza e i Sapienti arcaici. Colli intuisce immediatamente che a questo tipo di pensatori deve affidare il proprio incedere.

3. Questa scelta avviene con sicurezza e senza esitazione, poiché è connessa a un' affinità profon­da. La sua esperienza, come quella di pochi altri, dimostra che il sentire in maniera affine è la condi­zione indispensabile per mettersi in contatto con le parole dei grandi. Colli sente di appartenere a questa schiera di filosofi - il simile si unisce al simile - e di essi diventa devoto.

4. Con Colli abbiamo la conferma che il senso di una filosofia si misura, come disse Nietzsche (SE 379), sulla propria «più sacra intimità». L'interio­rità è difatti il «termine comune» attraverso cui egli risolve l'apparente eterogeneità delle espressioni filosofiche dei suoi maestri (cfr. PHK 12).

5. Questo modo di porsi di fronte ai filosofi distin­gue l'autentico discepolo da coloro che tendono soltanto all' erudizione. Colli è uno dei pochi uomi­ni che guarda alla cultura per formare se stesso. In lui la ricerca, la discussione sulla filosofia non nasce dal bisogno, tipico degli eruditi, di allargare la saggistica storica, ma come «preludio a una dottrina autonoma» (RE 156).


6. Il suo interesse per la dottrina dei sapienti non scaturisce dal semplice impulso scientifico: l'aspetto puramente formale (la relazione dei dati storici privati del loro valore) delle correnti indagini storiche e filologiche gli è estraneo (PHK 11-12). Oggetto della sua ricerca sono le espressioni in quanto manifestazioni di un'interiorità umana in­dividuale. Egli ha capito che solo questo tipo di espressioni, attraverso cui si cerca di oggettivare l'indicibile radice noumenica, ha valore conosciti­vo.

7. Dopo aver saggiato se stesso con il pensiero politico platonico, gli appare chiaro che il più alto valore della sua vita sarà la conoscenza e non l'azione (PP). Quindi non le Leggi o la Repubblica, ma il Simposio, il Fedro, il Fedone, il Parmenide, saranno i suoi dialoghi preferiti, poiché qui gli è possibile rendere onore alla «filosofia» in quanto «amore della sapienza». Difatti, Platone riceve l'ammirazione di Colli fin tanto che mantiene una concezione metafisica di stampo presocratico; ma quando condiziona la sua dottrina con un «fine», pedagogico o politico, subisce il biasimo di Colli, il quale con ciò chiarisce la propria intenzione: mantenersi fedele al pensiero puro nella sua confi­gurazione sapienziale, lontano dalle miserie della sofistica. Così che, sin dal suo primo apparire sulla scena filosofica, Colli consacra il suo pensiero e la sua energia all’inattualità.

8. Veramente, chi si misura con i grandi impegna se stesso nella maniera più ardua. Ciò si avverte in modo inequivocabile quando Colli riesce a pene­trare nel «sacro recinto» Parmenide, e a scoprire che qui una ricca personalità è miracolosamente congiunta a una grande legislazione filosofica. Parmenide è il vero modello di Colli; nelle parole che commentano la figura del sapiente (PHK 123 ­25) si cela la sua personalità e quella che sarà la sua prestazione teoretica.

9. La ricerca della grandezza conduce Colli istinti­vamente di fronte alle nature più riuscite. Un altro dei momenti più intensi è dato dalla contemplazione della ricchezza interiore di Empedocle. Preparato dalle sue intuizioni giovanili, cioè da un intimo legame con le verità pronunciate dal sapiente, il suo commento (PHK 161-173) assomiglia a un rito iniziatico. Lo stile mistico raggiunge l' acme quan­do Colli riesce a recuperare, nelle vibranti espres­sioni poetiche di Empedocle, quello slancio con cui il sapiente si fissava nella propria interiorità per cogliere la radice delle cose.

10. Con i sapienti Colli affina le sue capacità intuitive e deduttive. Egli vuole «mostrarsi invinci­bile nelle cose dell'intelletto», per ciò accetta la sfida più terribile: quella lanciata alla mente degli uomini da Eraclito, con i suoi lampeggianti aforismi. Colli si pone di fronte agli enigmi oracolari di Eraclito come un «profeta» che interpreta parole ispirate dal dio. Percorrere il logos eracliteo signi­fica per lui recuperare la «variegata complessità dell'inesprimibile cui esso allude». Il logos, l'espressione di Eraclito è congeniale a Colli per­ché entrambi elaborano gli stessi universali (cfr. FE 177; SG I1I).

11. Il concreto «metodo» dell' interiorità è anche il segno inequivocabile della onestà filosofica. Colli vuole ricordarla a chi pretende di filosofare: «non è lecito servirsi di qualsiasi concetto, quando non siano prima conosciute - il che vuoI dire anzitutto sentite -le sensazioni da cui tale concetto è costrui­to» (RE 149). Con Colli la ricerca nel campo della sensazione riacquista dignità filosofica, mentre risulta abban­donata anche da coloro che si professano empiristi. Certo, riconosce Colli, si tratta di una conoscenza scomoda in quanto i dati primitivi che stanno dietro la sensazione è «materiale informe, inconscio, inconoscibile», ma chi vuole rimanere fedele alla conoscenza non può esimersi da questa indagine, poiché le origini della sensazione sono le «radici ... di tutto l'universo, dell'arte e della filosofia, del­l’uomo e degli animali, del mare e della terra, del cielo e delle stelle» (RE 190). La riflessione su questo incontestabile ordine genetico permette a Colli di stabilire la gerarchia nella sfera del cono­scere: i concetti non possono svilupparsi in maniera autonoma, e il filosofo non ha il diritto di prescin­dere dalla conoscenza di ciò da cui derivano.

12. Con i suoi scritti Colli libera il pensiero greco dalle «esalazioni soporifere» che su di esso ha diffuso la filologia moderna. I sapienti arcaici ridiventano personaggi viventi.

Alla venerazione per l'elemento personale (che arricchisce quella già offertaci da Nietzsche) Colli aggiunge l'ammirazione per le loro conquiste teoretiche, dimostrando che anche queste non sono state ancora confutate.

Il suo giudizio capovolge nettamente la tradiziona­le interpretazione ilozoistica e combatte con solidi argomenti l'opinione ancora diffusa secondo la quale il pensiero degli antichi sarebbe il «balbettan­te avvio» di quello moderno. Per Colli, il pensiero dopo Platone, di fronte all'eccellenza speculativa del sapienti arcaici, è privo delle intuizioni essen­ziali.


13. Colli comprende subito che il ritorno alla sa­pienza è l'unica strada giusta. Le questioni della conoscenza possono essere unificate, dominate, giudicate solo se si «emerge dall' origine dell' inte­ro fenomeno - la dialettica greca - dove stanno sepolti gli elementi primordiali» (DN 83). E sicco­me vuole affrontare il problema della ragione nella sua purezza, la ricerca prosegue «a prescindere» dalla discussione con i contemporanei.

14. Per Colli non si può parlare il linguaggio filosofico in maniera corretta senza attaccarsi direttamente agli scritti aporetici di Aristotele, con i quali è possibile recuperare molti risultati raggiunti dalla dialettica (cfr. FE 205; NF 73).

Colli non nasconde a se stesso la difficoltà di questa ricerca. Dice infatti: «si richiedono doti divinatorie per poter recuperare quanto è sottinteso da tale notazione mnemonica» (FE 215). Tuttavia il tentativo di dominare le dottrine cruciali e contro­verse del testo aristotelico, molto spesso «conden­sate» in poche righe, riesce a lui più che a tutti gli altri (dalla Scolastica a Düring). Lo dimostra il commento ad alcuni punti nevralgici del pensiero di Aristotele, come la dottrina del giudizio, il con­cetto dell'essere e la teoria della modalità, nella molto lodata traduzione dell’Organon (AO 758 ­74; 808-22).


15. Gli aridi sistemi filosofici dei moderni e dei contemporanei non interessano a Colli. Essi non accrescono la sua personalità e nemmeno vivifica­no la sua attività. Ogni filosofia i cui concetti non sono congiunti alla vita è per lui priva di valore conoscitivo. Colli vuole formarsi su un sapere autentico, perciò il suo occhio penetrante cerca le dottrine di coloro che hanno intuito ed espresso l'intima natura delle cose. Come possono interes­sarlo e farlo riflettere certi «epigoni di posizioni non autentiche»?

«Il pane secco che la ragione umana gli offre con buone intenzioni, egli io sdegna soltanto perché banchetta segretamente alla tavola degli dèi» (Hölderlin).

16. Colli ha saputo prendere le distanze da tutte quelle dottrine, oggi molto lodate, che vogliono rompere con la tradizione, e ha avuto la forza di ristabilire una continuità con i pensatori che hanno condotto ricerche serie; giudicando false tutte le rivoluzioni filosofiche che si sono succedute da Fichte ad oggi (RE 321).

Questi innovatori non solo non pensano ai «fonda­menti delle illusioni che ci appaiono come cose», come insegnano i Greci (RE 609), ma nemmeno alle «cose», come voleva Nietzsche (GM III 8), pensano soltanto alle «parole» e a queste si adatta­no, convinti che il linguaggio possa creare la filo­sofia (cfr. RE 297, 299).


17. I suoi «Quaderni postumi» testimoniano una severa disciplina filosofica. Pazientemente appro­fondisce le questioni fondamentali, intraprenden­do con i cosiddetti (da Nietzsche) «tiranni dello spirito» una gara così ricca che a volte un solo frammento istruisce più di tutte le «filosofie» contemporanee. Colli affronta senza perdersi in oziose disquisizioni i granitici baluardi dell'Etica di Spinoza e della prima Critica di Kant; ed è uno dei pochi (se non il solo) ad addentrarsi nel chiarissimo impianto teoretico della Quadruplice di Schopenhauer, per trarne i temi per una teoria della conoscenza.

18. Ai suoi maestri Colli rimane per lunghi anni fedele. Gli appartiene quella grande virtù di stare in silenzio a dialogare con coloro che manifestano la vera conoscenza, distante dalle mondanità pseudo­culturali del secolo attuale. Queste parole di Nietzsche, scritte a proposito dei sapienti arcaici, bene si adattano a configurare la posizione del nostro filosofo: «Attraverso i desolati intervalli di epoche lontane, un gigante rivolge la parola a un altro gigante, e questo colloquio tra spiriti elevati prosegue senza curarsi dei nani petulanti e chiasso­si che strisciano in basso» (PHG 273).

19. Con Colli la filosofia ritorna a un «alto livello» teoretico. In lui troviamo la precisa volontà di analizzare e dominare tutti i problemi della cono­scenza, della metafisica e della logica. Ha avuto il coraggio, oltre la capacità, di questa azione gran­diosa, poiché tenere il passo dei grandi pensatori è un rischio terribile. Ma questa elevata posizione assunta ha un vantaggio: rende, come egli voleva, più acuto e perentorio il suo giudizio su ogni questione cruciale.

20. Il contrario accade ai filosofi libreschi che circolano attualmente nelle Università, nei conve­gni, nelle riviste e persino nei giornali; costoro hanno a che fare con la filosofia solo per soddisfare qualche fine pratico o politico o professionale. Nelle loro ricerche non si preoccupano di affronta­re i grandi del passato, essendo le loro capacità limitate alle chiacchiere dei colleghi. Oppure, quan­do se ne occupano, i loro scritti si esauriscono in vuote astrazioni, che non toccano il logos autentico. Privo di razionalità e di intuizione, il discorso di costoro parte da «concetti arbitrari e derivati», accettati solo perché, oscuri e difficili, suonano filosofici.

Colli come educatore

Levando intanto queste prime rudi

scaglie n'andrò con lo scarpello inetto:

forse ch' ancor con più solerti studi

poi ridurrò questo lavor perfetto.
Ariosto
Frontespizio del mio libro pubblicato nel 1994 presso la Tipogafia CARTOSTAMPA di Castelfranco Veneto, 102 pp.
Contiene 80 aforismi suddivisi in cinque capitoli.




giovedì 8 marzo 2012

La natura ama nascondersi

Frontespizio degli "Studi sulla filosofia greca", stampato a Milano presso la tipografia del Corriere della Sera in 500 esemplari nel 1948. Una nuova edizione con il titolo "La natura ama nascondersi" è stata pubblicata nel 1988, a cura di Enrico Colli, da Adelphi. Nel volume III de "La sapienza greca" il motto di Eraclito è tradotto da Colli così: "Nascimento ama nascondersi", 14 [A 92].

Ho avuto l'onore di ricevere una copia dell'originale dalla signora Anna Maria Colli, moglie del filosofo, come ringraziamento alla mia tesi di laurea su Colli, nel 1985.

La teoria dell’acme dell’opera d’arte in Colli

La teoria dell’acme dell’opera d’arte in Colli

Relazione letta al Convegno “Il mistero delle origini – Giorgio Colli, a vent’anni dalla morte. Todi, 22 ottobre 1999.

Ciò che condiziona le parole, i suoni, le forme, i colori di un’opera d’arte è la ragione essenziale del suo fascino e anche il problema fondamentale di una teoria dell’arte. In Colli il discorso sull’arte è ricondotto, e si limita, alla sua parte essenziale: la qualità della vita interiore dell’artista.

Sono in errore quelle estetiche (idealistica e realistica) che definiscono l’arte a partire dall’oggetto della rappresentazione artistica. Colli ribadisce la grande scoperta fatta da Nietzsche sull’arte, quando afferma che “non si deve considerare la rappresentazione come tale, ma vederla in relazione a un fondo dionisiaco. Questo è l’unico metro per scoprire la grande arte” (QP 508-9).

Colli sa bene che non tutte le opere d’arte hanno un’origine dionisiaca. Ma con la sua teoria Colli non vuole spiegare tutta l’arte. Egli chiama artista non chi realizza un’opera giudicata artistica, dai più o dagli esperti, bensì colui che sapendo regredire lungo il filo retrocedente della memoria recupera gli attimi, i primi ricordi dell’immediato.

L’artista vero non imita il reale, non crea le forme ideali, ritrova invece qualcosa nel passato. Decisivo e rivelatore per l’arte autentica è l’allontanamento dalla vita attuale. Il distacco dell’esistenza artistica è un recupero dei primi ricordi di ciò che è immediato nella vita.

Questi ricordi, che non si ritrovano nella coscienza quotidiana dell’uomo data la loro natura archetipica, sfuggono ad ogni apprensione discorsiva, cosciente, ma l’artista li ritrova, in modo miracoloso, sapendo regredire a sufficienza lungo questo cammino di vita ascendente, che dal presente conduce al passato; cammino che muove verso una sfera di adeguatezza alla fonte della vita, verso un mondo in cui erano assenti le condizioni astratte.

“Recuperando l’abisso del passato l’uomo si identifica con Dioniso” (NF 35).

Dal punto di vista formale l’attimo è istantaneità: si ricorda qualcosa senza durata. Ma quale è il “contenuto” dei ricordi primitivi? La rappresentazione artistica interiore da cui prende avvio l’espressione artistica esteriore è un aggregato in cui l’ambiguità modale (necessario e contingente) congiunge i ricordi degli attimi. In ciò la rappresentazione artistica si distingue da quella naturale; in quest’ultima prevale il nesso di necessità tra i ricordi degli attimi. Ma l’arte è contro la natura, dice Colli; nel flusso verso l’immediato essa lotta contro la necessità che domina incontrastata ogni aspetto della nostra vita (DN 70). L’arte dunque compie lo sforzo di restaurare il movimento primordiale dell’espressione (FE 30). Difatti l’attimo esce da un nesso espressivo in cui giuoco e violenza sono inscindibilmente intrecciati (FE 117). Lasciando sussistere l’ambiguità dei nessi l’arte tenta di inchiodare il fremito dell’immediatezza.

Date queste indicazioni la caratteristica fondamentale dell’opera d’arte è l’ambiguità. Attenzione però, ambigue non perché sono difficili da comprendere, ma in se stesse, in quanto simboli della duplice natura del mondo (DN 150).

Ad illustrare il contenuto degli attimi sono utili i termini contraddittori con i quali si definisce la natura di Dioniso. “Dioniso è vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, desiderio e distacco, giuoco e violenza,” ... e altre cose ancora (cfr. SG I 15).

E veniamo ora alla teoria dell’acme dell’opera d’arte: un vero problema che Colli pone alla critica d’arte. Al cammino ascendente, dal presente al passato, segue un cammino discendente in cui l’artista comincia a dire quello che ha veduto. Dopo aver vissuto nel passato ora vuole ritornare, per raggiungere gli altri uomini nel presente. E ciò che è stato il traguardo della sua corsa all’indietro, l’immediato, deve trovare un’espressione nella realizzazione dell’opera: l’acme dell’opera d’arte è ciò in cui i ricordi dell’immediato, trasfigurati in forme, parole, suoni, trovano un’espressione.

La musica, dice Colli, offre l’esempio più efficace: “scoperta di attimi interiori – loro traduzione nell’udibilità – costruzione dell’architettura espressiva per includere, condizionare, suscitare l’acme”. Più precisamente: “Ogni piccolo o grande edificio musicale ha un suo punto culminante. L’inizio e la fine della critica musicale potrebbe consistere nell’indicazione delle battute in cui si attinge questo massimo livello, questa culminazione della vita del musicista, ascendente e discendente” (DN 124). Qui Colli non è stato generoso verso chi vuole comprendere, poiché aggiunge: “non occorre altro per chi sappia seguire”.

Noi notiamo che la vicenda Nietzsche-Wagner ha dimostrato a sufficienza come ci si possa sbagliare nel riconoscere come dionisiaca una musica. Lo stesso Nietzsche riconoscendo il proprio errore afferma in Nietzsche contra Wagner che le obiezioni alla musica wagneriana sono “obiezioni fisiologiche”. E ne Il caso Wagner dice che non ha altra prova per stabilire ciò che è buono se non questa: “è buono ciò che mi rende fecondo”.

E’ vero che la musica offre un esempio efficace per la teoria dell’acme, tuttavia se la condizione del giudizio è l’effetto che essa ha nell’ascoltatore, allora sarà sempre un atto arbitrario indicare l’acme (ammesso e non concesso che ci sia un criterio per stabilire quale musica possa considerarsi dionisiaca). La critica si troverebbe nella difficoltà di stabilire la modalità del giudizio. La stessa difficoltà che incontrò Kant quando dovette trovare la condizione della relazione tra piacere e bello.

Nel ‘senso comune’ possiamo trovare soltanto la condizione della comunicabilità del giudizio di gusto, ma non la necessità di un accordo sulla relazione da noi stabilita tra il brivido provato e l’acme dell’opera. Il giudizio non è mai disinteressato, specie nella musica strumentale dove il “contenuto” finisce per coincidere con il suo effetto, con la sua interpretazione; oltretutto quando è in giuoco la sensibilità, pochi sono disposti ad accettare l’autorità altrui.

La teoria dell’acme trova invece un’applicazione adeguata nelle altre arti, poiché in esse l’immediatezza riceve significato dall’espressione. Lo conferma lo stesso Colli quando pronuncia quella che potrebbe valere come la regola generale della composizione: “come si comunica la più alta sapienza di Dioniso? Col rappresentare l’arresto di un’azione in un’istantaneità sconvolgente, in un quadro culminante” (SG II 21). La stessa passione di Dioniso è sufficiente a dimostrarlo: il dio viene trucidato dai Titani mentre si guarda allo specchio, in quell’attimo giuoco e violenza coincidono in un unico quadro metafisico (SG I 42). Un altro esempio è la descrizione dell’attimo in cui Core (Persefone) fu rapita: nell’istante si manifesta allo sguardo della fanciulla la contraddizione metafisica di Dioniso: la bellezza (del narciso che vuole raccogliere) e la violenza (di Ade che vuole afferrarla) coincidono (SG II 21).

Colli ci informa che un maestro della teoria dell’acme è stato Goethe. Più istruttivo dei versi del Faust (II, 8424-31) citati da Colli (cfr. PHK 204 n; DN 68) è secondo noi lo scritto Laocoonte, in cui Goethe trasferisce la teoria dell’attimo dalla prosa alle arti figurative.

“La più alta espressione di pathos che esse possono rappresentare è sospesa nel passaggio da una situazione all’altra” (Scritti, 108). Il Laocoonte “è estremamente importante proprio per la rappresentazione dell’attimo” (id., 106). Qui la grandezza degli artisti si è dimostrata nella composizione, la quale presenta nel momento culminante elementi contrapposti: “l’effetto congiunto di uno slanciarsi e di un ritrarsi, di un agire e di un patire, di uno sforzo e di una resa” (id., 107). Ma già Winckelmann nei suoi Pensieri sull’imitazione dei greci, parlando del Laocoonte aveva individuato l’acme dell’opera: “Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano trovarsi in armonia” (p. 26). E ancora nella Storia dell’arte nell’antichità in modo sorprendente dice: “là dove vive il più grande dolore, si manifesta anche la più grande bellezza” (p. 241).

In questa coincidentia oppositorum, in questa sorta di sospensione dell’animo agitato da impulsi contrastanti si deve riconoscere la natura dello stato dionisiaco. Ma l’interpretazione della Grecia di Winckelmann e Goethe si fonda su un gusto per lo stile ellenistico-barocco; ad essa Colli contrappone un’interpretazione che vuole essere autenticamente apollinea, fondata sullo stile della scultura arcaica. Nei kuroi arcaici, che rappresentano secondo Colli il “vertice dell’eccellenza espressiva della scultura” (DN 137), abbiamo un’abbreviazione illuminante del rapporto tra contenuto dionisiaco e forma apollinea.

Interessantissimo anzitutto è l’accostamento della scultura arcaica alla dialettica. Prendendo le difese di quest’ultima, Colli afferma: “la dialettica non era apparsa in Grecia per il dissanguarsi della vita, ma al contrario per una sua esuberanza, per una trasfigurazione espressiva simile a quella della scultura arcaica” (DN 83-4). Colli sviluppa ulteriormente questa similitudine, e coincidenza temporale, attraverso il momento magico della ragione, vivente nella figura di Parmenide. Costui, dice Colli, “ha inventato l’anima della statua greca, ciò senza cui questa non sarebbe tale. E’ lui che ci dà la chiave per aprire le statue greche e guardarle di dentro” (QP 256). Colli stabilisce un parallelo tra il ciò che è parmenideo e la bellezza dei kuroi. Il “sorriso fermo” di queste statue è espressione immediata, l’attimo che prende o segue il moto, l’istantaneità fuori del tempo, così come l’essere è la “forma che esprime qualcosa fuori della rappresentazione” (QP 297; 438).

La statua ferma plasticamente pietrifica l’attimo, l’interiorità pura, così come l’essere parmenideo arresta “ieraticamente tutti i moti” (QP 256).

In Filosofia dell’espressione troviamo un commento più esteso ai kuroi, dove non meno importante è il rilievo dato allo stile inteso in senso espressivo: la “ruvida nudità” dei kuroi esprime l’immediatezza elementare. Di fronte ad essi Colli prova “…anzitutto un brivido di meraviglia, come per un’ambiguità che attragga e sgomenti. I grandi occhi dorici aperti… il disegno dell’orbita è elaborato e scabro a un tempo, delimita quanto allude all’interiore e lo controlla con crudeltà. Qualcosa ci manca negli occhi, ma la bocca è preservata, e dallo sguardo che atterrisce salva il sorriso, dove si manifesta una philanthropia ingannevole, poiché il sorriso è il primo segno fisico della ragione simulatrice, della sua malizia e ironia. Appena percettibile è la contrazione della bocca, piegata in alto agli angoli, così che le labbra lievemente si dischiudono. E’ questo l’elemento dolce della simmetria, ma ambiguo ancora nella serenità, nel dominio giocondo sull’apparenza, nel fiore della bellezza, che dissimula una minaccia: quei muscoli difatti sono tesi, rapidi a slanciarsi subitaneamente, a sfrenarsi in uno scatto che sta fuori della nostra rappresentabilità, con la stessa prontezza e concitazione, con cui le anime dei kuroi, che indugiano nella recettività del sorriso, possono d’un tratto scatenare pensieri dai piedi leggeri” (FE 176-7).

Invero ogni parola usata da Colli è giustificata da una risonanza emotiva, ma anche dalla decisa intenzione di richiamare in modo esplicito la duplice natura metafisica, nella contrapposizione dionisiaca tra grandezza d’animo (la recettività del sorriso) e la volontà di potenza (quei muscoli tesi a slanciarsi). Mirabilmente congiunti in una sola figura i due impulsi umani contrapposti, che perpetuano nell’apparenza i naturali gioia e dolore, i dionisiaci giuoco e violenza e gli apollinei bellezza e crudeltà.

Abbiamo detto che decisivo e rivelatore per l’arte autentica è l’allontanamento dalla vita attuale. Nel finale di un aforisma, non pubblicato in Dopo Nietzsche, parlando dell’arte intesa come allontanamento dal presente, Colli aggiungeva: “ciò è documentabile in generale, in Holderlin e Leopardi, in Ariosto e Cervantes, in Mozart e Wagner; in certi casi poi è degna di meditazione la struggente immersione nel passato, come in Stendhal e Proust” (QP fr. 530n). Questo breve elenco si completa con altre tre grandi anime dell’età moderna: Shakespeare, Beethoven e Dostoevskij, nominati in altri luoghi.

Come ognuno potrà notare non sono annoverati tra i grandi gli artisti figurativi, pittori e scultori. Probabilmente ha pesato su questa esclusione la dura osservazione sugli artisti fatta da Nietzsche in Genealogia della morale: “essi sono troppo lontani dall’essere abbastanza indipendenti nel mondo e contro il mondo perché i loro apprezzamenti di valore le loro trasformazioni meritino di per se interesse! Essi furono in tutti i tempi valletti di una morale o di una filosofia o di una religione” (GM III 5). La scultura e la pittura medioevale e moderna, per esempio, al vaglio della teoria di Colli verrebbero eluse dal regno dell’arte. Ci sembra allora – per concludere – che Colli abbia applicato alla lettera quell’altra sentenza di nietzscheana, contenuta ne La nascita della tragedia, che recita: “Tutto ciò che ora chiamiamo cultura, educazione, civiltà, dovrà un giorno comparire davanti all’infallibile giudice Dioniso” (GT 132).

Riferimenti bibliografici
J. J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, SE Milano 1990.
J. J. Winckelmann, Il bello nell’arte, Einaudi Torino 1943.

J. W. Goethe, Scritti sull’arte e la letteratura, Bollati Boringhieri 1992.

G. Colli, Physis kryptesthai pilei. Studi sulla filosofia greca, Milano 1948 (PHK).

G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi Milano 1969 (FE).

G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi Milano 1974 (DN).

G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi Milano 1975 (NF).

G. Colli, La sapienza greca I –II, Adelphi Milano !977-78 (SG).


COLLI E ZENONE DI ELEA

COLLI E ZENONE DI ELEA
Relazione letta al Convegno “Giorgio Colli e la nascita della filosofia”, in occasione della pubblicazione delle sue lezioni su Zenone di Elea (Adelphi) . La Spezia 21 novembre 1998.
Chi leggerà queste lezioni su Zenone troverà confermato che per Colli la discussione sui Sapienti non nasce dal bisogno tipico degli eruditi di allargare la saggistica storico-filologica, ma “come preludio a una dottrina autonoma” (QP fr. 56). Qui brevemente tocchiamo due temi, per sottolineare l’enorme importanza che hanno le aporie di Zenone per il pensiero teoretico di Colli. Può sembrare strano che un filosofo possa prendere qualcosa da Zenone, il campione del “nichilismo teoretico”.
Difatti come osserva Colli stesso in queste lezioni: “il fine ultimo di Zenone è quello di sviluppare una teoria totalmente negativa della ragione umana “ (ZE 147). Ma è proprio per questo che Zenone interessa a Colli. Zenone, dice Colli, ha svelato la natura distruttiva della ragione (QP fr. 319). Zenone ha infranto il divieto parmenideo, sviluppando sino alle estreme conseguenze il cammino distruttivo del non-essere (NF 90). Al di là delle aporie sul movimento e lo spazio, secondo Colli, l’argomento originale del libro di Zenone (ricordato nel Parmenide platonico) era: tutto è possibile e impossibile (QP fr. 414). Di fronte alle deduzioni zenoniane “ogni conoscenza, ogni convinzione, ogni razionalità costruttiva, ogni posizione scientifica risulta illusoria e inconsistente” (NF 91).
Anche in Colli la ragione subisce uno scacco. Con la sua legge generale della deduzione Colli dimostra che un oggetto necessario risulta impossibile. Con l’applicazione di questa legge crolla l’illusione di possedere, dominare le cose attraverso l’astrazione (cfr. QP frr. 200-1; FE 152).
Tuttavia nel nichilismo teoretico di Zenone, Colli vede una “spinta catartica” (FE 192). Sullo sfondo della prestazione distruttiva di Zenone è la metafisica di Parmenide: “il cui contenuto va cercato al di fuori della sfera razionale” (ZE 147). Distrutte tutte le opinioni umane, rimane inviolabile l’immediato: è questo l’aiuto di Zenone, o meglio l’accordo in profondità tra Parmenide e Zenone, che Colli sottolinea. Quindi la posizione di Colli, come quella di Zenone, non è nichilistica. I veri legislatori del nichilismo sono coloro che credono che la ragione abbia un valore autonomo; coloro che staccandosi dall’immediatezza costruiscono sistemi filosofici e scienze.
Colli sente l’esigenza i svelare la natura distruttiva del logos per combattere la “ipertrofia del pensiero astratto” (QP fr. 510), dato che “la tracotanza costruttiva della ragione è responsabile della decadenza” (QP fr. 8). E sente pure l’esigenza di ridare al logos la sua originaria funzione espressiva in senso metafisico (cfr. FE 183). Per questi motivi Colli ha inteso la sua legge generale della deduzione come un “punto di svolta” (QP fr. 505), un’inversione di rotta, per portare fuori dal pericolo la razionalità dell’uomo. Quindi bisognerà comprendere che “la distruzione della ragione è una ricostituzione della salute dell’uomo” (QP fr. 143) – per cui veder dimostrato, grazie a Colli, che ogni conoscenza si rivela inconsistente quando si dimentica il sostegno metafisico (il riferimento all’immediato) ha una portata liberatoria.
Rimane da risolvere però una questione cruciale: come dimostrare l’immediato. L’immediatezza in quanto elemento metafisico non è rintracciabile nel tessuto rappresentativo, si pone per Colli il problema di come dimostrare il contrario a coloro che credono “che questo mondo non lasci nulla al di fuori” (FE 50). Come è possibile dimostrare qualcosa che è fuori dell’apparenza?
Anzitutto, testimoniare semplicemente l’irrappresentabile con l’aiuto della memoria che conserva qualcosa di “eterogeneo rispetto al ricordo” (FE 36), non mette al riparo la dottrina da eventuali attacchi. Anche la rappresentazione considerata sostanzialmente come espressione di ciò che è nascosto è una quantità continua, attraverso la divisibilità all’infinito rischia di dissolversi, zenonianamente, nel nulla. E allora, come riesce Colli a sanare questo contrasto che si manifesta nella ragione umana? Con la teoria del contatto metafisico.
(La designazione dell’immediato come “contatto”, dice Colli, è suggerita “dalla generica prospettiva della conoscenza come relazione tra soggetto e oggetto” (FE 39). Il termine contatto si impone anche per la sua intuitività, permette cioè di accennare allo stato in cui soggetto e oggetto non si distinguono). Questa teoria è strettamente connessa al concetto di continuo, che è l’attributo essenziale della categoria della quantità, che è , guarda caso, il tema di fondo di tutte le aporie zenoniane (cfr. ZE 102).
In un prezioso frammento dei Quaderni postumi di Colli troviamo scritto: “la radice dell’irrazionale, dell’inesprimibile, è nella quantità, come seppe e dimostrò Zenone” (QP fr. 271). All’irrappresentabile si giunge dunque con l’analisi della rappresentazione. Difatti la relazione soggetto-oggetto rimanda al suo principio, alla sua causa. Ma il principio della rappresentazione non può appartenere al continuo, non può essere individuato nel tessuto rappresentativo. Per trovare il principio della rappresentazione bisognerebbe trovare un punto indivisibile. Ma il contatto metafisico non può essere un punto. Se l’irrappresentabile si potesse definire in un punto esso apparterrebbe alla rappresentazione, ma il punto non esiste, perché ogni quantità è divisibile. D’altra parte è impossibile inserire un punto indivisibile nel continuo. La condizione della rappresentazione deve essere dunque cercata fuori di essa. Pertanto dice Colli non rimane che pensare al contatto come a un “vuoto rappresentativo”, a un “interstizio metafisico” che si apre “con il taglio di una linea retta che è una rappresentazione” (FE 41).
Kant, appellandosi al principio della continuità, aveva stabilito che nell’esperienza non può intervenire niente che dimostri il vuoto (KC 247-8; 301). Ma Colli ribatte che “per definizione il continuo può essere tagliato, e allora come si potrà evitare che la divisione cada tra due segmenti [soggetto e oggetto], i quali sono in contatto nel senso limitato che tra essi non c’è nulla?” (FE 42). Attraverso un’aporia Colli è riuscito a definire il contatto nel continuum temporale: e in effetti il contatto, testimoniato dalla memoria nella forma espressiva dell’attimo, è proprio quel qualcosa di non dominabile dalla rappresentazione che ne mette a repentaglio la continuità. Del resto, ci dice Colli, osserviamo come si comportano le scienze: la geometria e la matematica utilizzano gli elementi primi, il punto e l’unità, “come se fossero omogenei rispetto ai termini” del genere a cui appartengono (QP fr. 416), ma essi non sono tali e quindi a rigore non dovrebbero essere inseriti in una trattazione razionale. D’altra parte queste scienze non possono prescindere da questi elementi, perciò li utilizzano come se appartenessero al genere dell’estensione e del numero. Del punto “i matematici moderni evitano la definizione”, oppure lo “riconducono al concetto di limite”. Questo atteggiamento, secondo Colli, è la chiara “confessione della sua trascendenza, poiché il limite è appunto un inattingibile” (QP fr. 378). Dal momento che non appartiene al genere dell’estensione, il punto geometrico deve essere considerato come un “simbolo” di un’immediatezza che non può essere realizzata nel campo delle espressioni spaziali. Il punto dunque è “un elemento metafisico trascendente” (QP fr. 476), allo stesso modo del contatto.
Ciò che vale per la rappresentazione vista “sotto il profilo della forma pura dello spazio”, vale anche per la rappresentazione in generale, la quale necessita di un cominciamento, di un immediato come sua condizione. E quest’ultima, se vuole essere una vera condizione, non può soggiacere alle continue “fluttuazioni del rapporto soggetto-oggetto”, ma deve essere posta al di fuori della rappresentazione.
Per concludere, Colli e Zenone hanno combattuto la stessa battaglia per difendere l’irrappresentabile, hanno lottato contro quei tentativi “che sono stati compiuti allo scopo di dominare razionalmente la quantità continua” (FE 41). Zenone prima ancora che Democrito pensasse l’atomo indivisibile e prima ancora che Aristotele ed Euclide pensassero il punto geometrico, ne aveva dimostrato l’assurdità. Colli fa lo stesso dimostrando che la definizione del concetto matematico di limite è scorretta e contraddittoria. Entrambi dimostrano che gli argomenti razionali sono più favorevoli alla metafisica che alla possibilità della scienza.
(E dire che la filosofia moderna vuole convincerci del contrario!)
La Spezia, novembre 1998