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giovedì 8 marzo 2012

La teoria dell’acme dell’opera d’arte in Colli

La teoria dell’acme dell’opera d’arte in Colli

Relazione letta al Convegno “Il mistero delle origini – Giorgio Colli, a vent’anni dalla morte. Todi, 22 ottobre 1999.

Ciò che condiziona le parole, i suoni, le forme, i colori di un’opera d’arte è la ragione essenziale del suo fascino e anche il problema fondamentale di una teoria dell’arte. In Colli il discorso sull’arte è ricondotto, e si limita, alla sua parte essenziale: la qualità della vita interiore dell’artista.

Sono in errore quelle estetiche (idealistica e realistica) che definiscono l’arte a partire dall’oggetto della rappresentazione artistica. Colli ribadisce la grande scoperta fatta da Nietzsche sull’arte, quando afferma che “non si deve considerare la rappresentazione come tale, ma vederla in relazione a un fondo dionisiaco. Questo è l’unico metro per scoprire la grande arte” (QP 508-9).

Colli sa bene che non tutte le opere d’arte hanno un’origine dionisiaca. Ma con la sua teoria Colli non vuole spiegare tutta l’arte. Egli chiama artista non chi realizza un’opera giudicata artistica, dai più o dagli esperti, bensì colui che sapendo regredire lungo il filo retrocedente della memoria recupera gli attimi, i primi ricordi dell’immediato.

L’artista vero non imita il reale, non crea le forme ideali, ritrova invece qualcosa nel passato. Decisivo e rivelatore per l’arte autentica è l’allontanamento dalla vita attuale. Il distacco dell’esistenza artistica è un recupero dei primi ricordi di ciò che è immediato nella vita.

Questi ricordi, che non si ritrovano nella coscienza quotidiana dell’uomo data la loro natura archetipica, sfuggono ad ogni apprensione discorsiva, cosciente, ma l’artista li ritrova, in modo miracoloso, sapendo regredire a sufficienza lungo questo cammino di vita ascendente, che dal presente conduce al passato; cammino che muove verso una sfera di adeguatezza alla fonte della vita, verso un mondo in cui erano assenti le condizioni astratte.

“Recuperando l’abisso del passato l’uomo si identifica con Dioniso” (NF 35).

Dal punto di vista formale l’attimo è istantaneità: si ricorda qualcosa senza durata. Ma quale è il “contenuto” dei ricordi primitivi? La rappresentazione artistica interiore da cui prende avvio l’espressione artistica esteriore è un aggregato in cui l’ambiguità modale (necessario e contingente) congiunge i ricordi degli attimi. In ciò la rappresentazione artistica si distingue da quella naturale; in quest’ultima prevale il nesso di necessità tra i ricordi degli attimi. Ma l’arte è contro la natura, dice Colli; nel flusso verso l’immediato essa lotta contro la necessità che domina incontrastata ogni aspetto della nostra vita (DN 70). L’arte dunque compie lo sforzo di restaurare il movimento primordiale dell’espressione (FE 30). Difatti l’attimo esce da un nesso espressivo in cui giuoco e violenza sono inscindibilmente intrecciati (FE 117). Lasciando sussistere l’ambiguità dei nessi l’arte tenta di inchiodare il fremito dell’immediatezza.

Date queste indicazioni la caratteristica fondamentale dell’opera d’arte è l’ambiguità. Attenzione però, ambigue non perché sono difficili da comprendere, ma in se stesse, in quanto simboli della duplice natura del mondo (DN 150).

Ad illustrare il contenuto degli attimi sono utili i termini contraddittori con i quali si definisce la natura di Dioniso. “Dioniso è vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, desiderio e distacco, giuoco e violenza,” ... e altre cose ancora (cfr. SG I 15).

E veniamo ora alla teoria dell’acme dell’opera d’arte: un vero problema che Colli pone alla critica d’arte. Al cammino ascendente, dal presente al passato, segue un cammino discendente in cui l’artista comincia a dire quello che ha veduto. Dopo aver vissuto nel passato ora vuole ritornare, per raggiungere gli altri uomini nel presente. E ciò che è stato il traguardo della sua corsa all’indietro, l’immediato, deve trovare un’espressione nella realizzazione dell’opera: l’acme dell’opera d’arte è ciò in cui i ricordi dell’immediato, trasfigurati in forme, parole, suoni, trovano un’espressione.

La musica, dice Colli, offre l’esempio più efficace: “scoperta di attimi interiori – loro traduzione nell’udibilità – costruzione dell’architettura espressiva per includere, condizionare, suscitare l’acme”. Più precisamente: “Ogni piccolo o grande edificio musicale ha un suo punto culminante. L’inizio e la fine della critica musicale potrebbe consistere nell’indicazione delle battute in cui si attinge questo massimo livello, questa culminazione della vita del musicista, ascendente e discendente” (DN 124). Qui Colli non è stato generoso verso chi vuole comprendere, poiché aggiunge: “non occorre altro per chi sappia seguire”.

Noi notiamo che la vicenda Nietzsche-Wagner ha dimostrato a sufficienza come ci si possa sbagliare nel riconoscere come dionisiaca una musica. Lo stesso Nietzsche riconoscendo il proprio errore afferma in Nietzsche contra Wagner che le obiezioni alla musica wagneriana sono “obiezioni fisiologiche”. E ne Il caso Wagner dice che non ha altra prova per stabilire ciò che è buono se non questa: “è buono ciò che mi rende fecondo”.

E’ vero che la musica offre un esempio efficace per la teoria dell’acme, tuttavia se la condizione del giudizio è l’effetto che essa ha nell’ascoltatore, allora sarà sempre un atto arbitrario indicare l’acme (ammesso e non concesso che ci sia un criterio per stabilire quale musica possa considerarsi dionisiaca). La critica si troverebbe nella difficoltà di stabilire la modalità del giudizio. La stessa difficoltà che incontrò Kant quando dovette trovare la condizione della relazione tra piacere e bello.

Nel ‘senso comune’ possiamo trovare soltanto la condizione della comunicabilità del giudizio di gusto, ma non la necessità di un accordo sulla relazione da noi stabilita tra il brivido provato e l’acme dell’opera. Il giudizio non è mai disinteressato, specie nella musica strumentale dove il “contenuto” finisce per coincidere con il suo effetto, con la sua interpretazione; oltretutto quando è in giuoco la sensibilità, pochi sono disposti ad accettare l’autorità altrui.

La teoria dell’acme trova invece un’applicazione adeguata nelle altre arti, poiché in esse l’immediatezza riceve significato dall’espressione. Lo conferma lo stesso Colli quando pronuncia quella che potrebbe valere come la regola generale della composizione: “come si comunica la più alta sapienza di Dioniso? Col rappresentare l’arresto di un’azione in un’istantaneità sconvolgente, in un quadro culminante” (SG II 21). La stessa passione di Dioniso è sufficiente a dimostrarlo: il dio viene trucidato dai Titani mentre si guarda allo specchio, in quell’attimo giuoco e violenza coincidono in un unico quadro metafisico (SG I 42). Un altro esempio è la descrizione dell’attimo in cui Core (Persefone) fu rapita: nell’istante si manifesta allo sguardo della fanciulla la contraddizione metafisica di Dioniso: la bellezza (del narciso che vuole raccogliere) e la violenza (di Ade che vuole afferrarla) coincidono (SG II 21).

Colli ci informa che un maestro della teoria dell’acme è stato Goethe. Più istruttivo dei versi del Faust (II, 8424-31) citati da Colli (cfr. PHK 204 n; DN 68) è secondo noi lo scritto Laocoonte, in cui Goethe trasferisce la teoria dell’attimo dalla prosa alle arti figurative.

“La più alta espressione di pathos che esse possono rappresentare è sospesa nel passaggio da una situazione all’altra” (Scritti, 108). Il Laocoonte “è estremamente importante proprio per la rappresentazione dell’attimo” (id., 106). Qui la grandezza degli artisti si è dimostrata nella composizione, la quale presenta nel momento culminante elementi contrapposti: “l’effetto congiunto di uno slanciarsi e di un ritrarsi, di un agire e di un patire, di uno sforzo e di una resa” (id., 107). Ma già Winckelmann nei suoi Pensieri sull’imitazione dei greci, parlando del Laocoonte aveva individuato l’acme dell’opera: “Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano trovarsi in armonia” (p. 26). E ancora nella Storia dell’arte nell’antichità in modo sorprendente dice: “là dove vive il più grande dolore, si manifesta anche la più grande bellezza” (p. 241).

In questa coincidentia oppositorum, in questa sorta di sospensione dell’animo agitato da impulsi contrastanti si deve riconoscere la natura dello stato dionisiaco. Ma l’interpretazione della Grecia di Winckelmann e Goethe si fonda su un gusto per lo stile ellenistico-barocco; ad essa Colli contrappone un’interpretazione che vuole essere autenticamente apollinea, fondata sullo stile della scultura arcaica. Nei kuroi arcaici, che rappresentano secondo Colli il “vertice dell’eccellenza espressiva della scultura” (DN 137), abbiamo un’abbreviazione illuminante del rapporto tra contenuto dionisiaco e forma apollinea.

Interessantissimo anzitutto è l’accostamento della scultura arcaica alla dialettica. Prendendo le difese di quest’ultima, Colli afferma: “la dialettica non era apparsa in Grecia per il dissanguarsi della vita, ma al contrario per una sua esuberanza, per una trasfigurazione espressiva simile a quella della scultura arcaica” (DN 83-4). Colli sviluppa ulteriormente questa similitudine, e coincidenza temporale, attraverso il momento magico della ragione, vivente nella figura di Parmenide. Costui, dice Colli, “ha inventato l’anima della statua greca, ciò senza cui questa non sarebbe tale. E’ lui che ci dà la chiave per aprire le statue greche e guardarle di dentro” (QP 256). Colli stabilisce un parallelo tra il ciò che è parmenideo e la bellezza dei kuroi. Il “sorriso fermo” di queste statue è espressione immediata, l’attimo che prende o segue il moto, l’istantaneità fuori del tempo, così come l’essere è la “forma che esprime qualcosa fuori della rappresentazione” (QP 297; 438).

La statua ferma plasticamente pietrifica l’attimo, l’interiorità pura, così come l’essere parmenideo arresta “ieraticamente tutti i moti” (QP 256).

In Filosofia dell’espressione troviamo un commento più esteso ai kuroi, dove non meno importante è il rilievo dato allo stile inteso in senso espressivo: la “ruvida nudità” dei kuroi esprime l’immediatezza elementare. Di fronte ad essi Colli prova “…anzitutto un brivido di meraviglia, come per un’ambiguità che attragga e sgomenti. I grandi occhi dorici aperti… il disegno dell’orbita è elaborato e scabro a un tempo, delimita quanto allude all’interiore e lo controlla con crudeltà. Qualcosa ci manca negli occhi, ma la bocca è preservata, e dallo sguardo che atterrisce salva il sorriso, dove si manifesta una philanthropia ingannevole, poiché il sorriso è il primo segno fisico della ragione simulatrice, della sua malizia e ironia. Appena percettibile è la contrazione della bocca, piegata in alto agli angoli, così che le labbra lievemente si dischiudono. E’ questo l’elemento dolce della simmetria, ma ambiguo ancora nella serenità, nel dominio giocondo sull’apparenza, nel fiore della bellezza, che dissimula una minaccia: quei muscoli difatti sono tesi, rapidi a slanciarsi subitaneamente, a sfrenarsi in uno scatto che sta fuori della nostra rappresentabilità, con la stessa prontezza e concitazione, con cui le anime dei kuroi, che indugiano nella recettività del sorriso, possono d’un tratto scatenare pensieri dai piedi leggeri” (FE 176-7).

Invero ogni parola usata da Colli è giustificata da una risonanza emotiva, ma anche dalla decisa intenzione di richiamare in modo esplicito la duplice natura metafisica, nella contrapposizione dionisiaca tra grandezza d’animo (la recettività del sorriso) e la volontà di potenza (quei muscoli tesi a slanciarsi). Mirabilmente congiunti in una sola figura i due impulsi umani contrapposti, che perpetuano nell’apparenza i naturali gioia e dolore, i dionisiaci giuoco e violenza e gli apollinei bellezza e crudeltà.

Abbiamo detto che decisivo e rivelatore per l’arte autentica è l’allontanamento dalla vita attuale. Nel finale di un aforisma, non pubblicato in Dopo Nietzsche, parlando dell’arte intesa come allontanamento dal presente, Colli aggiungeva: “ciò è documentabile in generale, in Holderlin e Leopardi, in Ariosto e Cervantes, in Mozart e Wagner; in certi casi poi è degna di meditazione la struggente immersione nel passato, come in Stendhal e Proust” (QP fr. 530n). Questo breve elenco si completa con altre tre grandi anime dell’età moderna: Shakespeare, Beethoven e Dostoevskij, nominati in altri luoghi.

Come ognuno potrà notare non sono annoverati tra i grandi gli artisti figurativi, pittori e scultori. Probabilmente ha pesato su questa esclusione la dura osservazione sugli artisti fatta da Nietzsche in Genealogia della morale: “essi sono troppo lontani dall’essere abbastanza indipendenti nel mondo e contro il mondo perché i loro apprezzamenti di valore le loro trasformazioni meritino di per se interesse! Essi furono in tutti i tempi valletti di una morale o di una filosofia o di una religione” (GM III 5). La scultura e la pittura medioevale e moderna, per esempio, al vaglio della teoria di Colli verrebbero eluse dal regno dell’arte. Ci sembra allora – per concludere – che Colli abbia applicato alla lettera quell’altra sentenza di nietzscheana, contenuta ne La nascita della tragedia, che recita: “Tutto ciò che ora chiamiamo cultura, educazione, civiltà, dovrà un giorno comparire davanti all’infallibile giudice Dioniso” (GT 132).

Riferimenti bibliografici
J. J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, SE Milano 1990.
J. J. Winckelmann, Il bello nell’arte, Einaudi Torino 1943.

J. W. Goethe, Scritti sull’arte e la letteratura, Bollati Boringhieri 1992.

G. Colli, Physis kryptesthai pilei. Studi sulla filosofia greca, Milano 1948 (PHK).

G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi Milano 1969 (FE).

G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi Milano 1974 (DN).

G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi Milano 1975 (NF).

G. Colli, La sapienza greca I –II, Adelphi Milano !977-78 (SG).


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