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venerdì 9 marzo 2012

Colli come educatore, I

I

DISCIPLINA FILOSOFICA


1. Con Giorgio Colli la grande filosofia rivive un'altra stagione aurea. Dopo Nietzsche, soltanto lui incute rispetto e ammirazione, per profondità e lucidità di pensiero. Tutto ciò che egli esprime, attraverso la vita e l'opera, è segnato dalla grandez­za; ogni sua posizione nei confronti della cultura, ogni suo giudizio sulla vita e sugli uomini, costitui­scono una lezione di ineguagliabile valore. Attraverso alcuni esempi noi cercheremo di dimostrare ciò.

2. Degno di ammirazione è anzitutto il modo in cui sceglie i suoi educatori. Un «fiuto innato» per la grandezza e la veridicità lo guida sin da giovanis­simo verso gli scritti di coloro che hanno scoperto al di là dell' apparenza la trama nascosta della vita: Platone, Nietzsche, Schopenhauer, Spinoza e i Sapienti arcaici. Colli intuisce immediatamente che a questo tipo di pensatori deve affidare il proprio incedere.

3. Questa scelta avviene con sicurezza e senza esitazione, poiché è connessa a un' affinità profon­da. La sua esperienza, come quella di pochi altri, dimostra che il sentire in maniera affine è la condi­zione indispensabile per mettersi in contatto con le parole dei grandi. Colli sente di appartenere a questa schiera di filosofi - il simile si unisce al simile - e di essi diventa devoto.

4. Con Colli abbiamo la conferma che il senso di una filosofia si misura, come disse Nietzsche (SE 379), sulla propria «più sacra intimità». L'interio­rità è difatti il «termine comune» attraverso cui egli risolve l'apparente eterogeneità delle espressioni filosofiche dei suoi maestri (cfr. PHK 12).

5. Questo modo di porsi di fronte ai filosofi distin­gue l'autentico discepolo da coloro che tendono soltanto all' erudizione. Colli è uno dei pochi uomi­ni che guarda alla cultura per formare se stesso. In lui la ricerca, la discussione sulla filosofia non nasce dal bisogno, tipico degli eruditi, di allargare la saggistica storica, ma come «preludio a una dottrina autonoma» (RE 156).


6. Il suo interesse per la dottrina dei sapienti non scaturisce dal semplice impulso scientifico: l'aspetto puramente formale (la relazione dei dati storici privati del loro valore) delle correnti indagini storiche e filologiche gli è estraneo (PHK 11-12). Oggetto della sua ricerca sono le espressioni in quanto manifestazioni di un'interiorità umana in­dividuale. Egli ha capito che solo questo tipo di espressioni, attraverso cui si cerca di oggettivare l'indicibile radice noumenica, ha valore conosciti­vo.

7. Dopo aver saggiato se stesso con il pensiero politico platonico, gli appare chiaro che il più alto valore della sua vita sarà la conoscenza e non l'azione (PP). Quindi non le Leggi o la Repubblica, ma il Simposio, il Fedro, il Fedone, il Parmenide, saranno i suoi dialoghi preferiti, poiché qui gli è possibile rendere onore alla «filosofia» in quanto «amore della sapienza». Difatti, Platone riceve l'ammirazione di Colli fin tanto che mantiene una concezione metafisica di stampo presocratico; ma quando condiziona la sua dottrina con un «fine», pedagogico o politico, subisce il biasimo di Colli, il quale con ciò chiarisce la propria intenzione: mantenersi fedele al pensiero puro nella sua confi­gurazione sapienziale, lontano dalle miserie della sofistica. Così che, sin dal suo primo apparire sulla scena filosofica, Colli consacra il suo pensiero e la sua energia all’inattualità.

8. Veramente, chi si misura con i grandi impegna se stesso nella maniera più ardua. Ciò si avverte in modo inequivocabile quando Colli riesce a pene­trare nel «sacro recinto» Parmenide, e a scoprire che qui una ricca personalità è miracolosamente congiunta a una grande legislazione filosofica. Parmenide è il vero modello di Colli; nelle parole che commentano la figura del sapiente (PHK 123 ­25) si cela la sua personalità e quella che sarà la sua prestazione teoretica.

9. La ricerca della grandezza conduce Colli istinti­vamente di fronte alle nature più riuscite. Un altro dei momenti più intensi è dato dalla contemplazione della ricchezza interiore di Empedocle. Preparato dalle sue intuizioni giovanili, cioè da un intimo legame con le verità pronunciate dal sapiente, il suo commento (PHK 161-173) assomiglia a un rito iniziatico. Lo stile mistico raggiunge l' acme quan­do Colli riesce a recuperare, nelle vibranti espres­sioni poetiche di Empedocle, quello slancio con cui il sapiente si fissava nella propria interiorità per cogliere la radice delle cose.

10. Con i sapienti Colli affina le sue capacità intuitive e deduttive. Egli vuole «mostrarsi invinci­bile nelle cose dell'intelletto», per ciò accetta la sfida più terribile: quella lanciata alla mente degli uomini da Eraclito, con i suoi lampeggianti aforismi. Colli si pone di fronte agli enigmi oracolari di Eraclito come un «profeta» che interpreta parole ispirate dal dio. Percorrere il logos eracliteo signi­fica per lui recuperare la «variegata complessità dell'inesprimibile cui esso allude». Il logos, l'espressione di Eraclito è congeniale a Colli per­ché entrambi elaborano gli stessi universali (cfr. FE 177; SG I1I).

11. Il concreto «metodo» dell' interiorità è anche il segno inequivocabile della onestà filosofica. Colli vuole ricordarla a chi pretende di filosofare: «non è lecito servirsi di qualsiasi concetto, quando non siano prima conosciute - il che vuoI dire anzitutto sentite -le sensazioni da cui tale concetto è costrui­to» (RE 149). Con Colli la ricerca nel campo della sensazione riacquista dignità filosofica, mentre risulta abban­donata anche da coloro che si professano empiristi. Certo, riconosce Colli, si tratta di una conoscenza scomoda in quanto i dati primitivi che stanno dietro la sensazione è «materiale informe, inconscio, inconoscibile», ma chi vuole rimanere fedele alla conoscenza non può esimersi da questa indagine, poiché le origini della sensazione sono le «radici ... di tutto l'universo, dell'arte e della filosofia, del­l’uomo e degli animali, del mare e della terra, del cielo e delle stelle» (RE 190). La riflessione su questo incontestabile ordine genetico permette a Colli di stabilire la gerarchia nella sfera del cono­scere: i concetti non possono svilupparsi in maniera autonoma, e il filosofo non ha il diritto di prescin­dere dalla conoscenza di ciò da cui derivano.

12. Con i suoi scritti Colli libera il pensiero greco dalle «esalazioni soporifere» che su di esso ha diffuso la filologia moderna. I sapienti arcaici ridiventano personaggi viventi.

Alla venerazione per l'elemento personale (che arricchisce quella già offertaci da Nietzsche) Colli aggiunge l'ammirazione per le loro conquiste teoretiche, dimostrando che anche queste non sono state ancora confutate.

Il suo giudizio capovolge nettamente la tradiziona­le interpretazione ilozoistica e combatte con solidi argomenti l'opinione ancora diffusa secondo la quale il pensiero degli antichi sarebbe il «balbettan­te avvio» di quello moderno. Per Colli, il pensiero dopo Platone, di fronte all'eccellenza speculativa del sapienti arcaici, è privo delle intuizioni essen­ziali.


13. Colli comprende subito che il ritorno alla sa­pienza è l'unica strada giusta. Le questioni della conoscenza possono essere unificate, dominate, giudicate solo se si «emerge dall' origine dell' inte­ro fenomeno - la dialettica greca - dove stanno sepolti gli elementi primordiali» (DN 83). E sicco­me vuole affrontare il problema della ragione nella sua purezza, la ricerca prosegue «a prescindere» dalla discussione con i contemporanei.

14. Per Colli non si può parlare il linguaggio filosofico in maniera corretta senza attaccarsi direttamente agli scritti aporetici di Aristotele, con i quali è possibile recuperare molti risultati raggiunti dalla dialettica (cfr. FE 205; NF 73).

Colli non nasconde a se stesso la difficoltà di questa ricerca. Dice infatti: «si richiedono doti divinatorie per poter recuperare quanto è sottinteso da tale notazione mnemonica» (FE 215). Tuttavia il tentativo di dominare le dottrine cruciali e contro­verse del testo aristotelico, molto spesso «conden­sate» in poche righe, riesce a lui più che a tutti gli altri (dalla Scolastica a Düring). Lo dimostra il commento ad alcuni punti nevralgici del pensiero di Aristotele, come la dottrina del giudizio, il con­cetto dell'essere e la teoria della modalità, nella molto lodata traduzione dell’Organon (AO 758 ­74; 808-22).


15. Gli aridi sistemi filosofici dei moderni e dei contemporanei non interessano a Colli. Essi non accrescono la sua personalità e nemmeno vivifica­no la sua attività. Ogni filosofia i cui concetti non sono congiunti alla vita è per lui priva di valore conoscitivo. Colli vuole formarsi su un sapere autentico, perciò il suo occhio penetrante cerca le dottrine di coloro che hanno intuito ed espresso l'intima natura delle cose. Come possono interes­sarlo e farlo riflettere certi «epigoni di posizioni non autentiche»?

«Il pane secco che la ragione umana gli offre con buone intenzioni, egli io sdegna soltanto perché banchetta segretamente alla tavola degli dèi» (Hölderlin).

16. Colli ha saputo prendere le distanze da tutte quelle dottrine, oggi molto lodate, che vogliono rompere con la tradizione, e ha avuto la forza di ristabilire una continuità con i pensatori che hanno condotto ricerche serie; giudicando false tutte le rivoluzioni filosofiche che si sono succedute da Fichte ad oggi (RE 321).

Questi innovatori non solo non pensano ai «fonda­menti delle illusioni che ci appaiono come cose», come insegnano i Greci (RE 609), ma nemmeno alle «cose», come voleva Nietzsche (GM III 8), pensano soltanto alle «parole» e a queste si adatta­no, convinti che il linguaggio possa creare la filo­sofia (cfr. RE 297, 299).


17. I suoi «Quaderni postumi» testimoniano una severa disciplina filosofica. Pazientemente appro­fondisce le questioni fondamentali, intraprenden­do con i cosiddetti (da Nietzsche) «tiranni dello spirito» una gara così ricca che a volte un solo frammento istruisce più di tutte le «filosofie» contemporanee. Colli affronta senza perdersi in oziose disquisizioni i granitici baluardi dell'Etica di Spinoza e della prima Critica di Kant; ed è uno dei pochi (se non il solo) ad addentrarsi nel chiarissimo impianto teoretico della Quadruplice di Schopenhauer, per trarne i temi per una teoria della conoscenza.

18. Ai suoi maestri Colli rimane per lunghi anni fedele. Gli appartiene quella grande virtù di stare in silenzio a dialogare con coloro che manifestano la vera conoscenza, distante dalle mondanità pseudo­culturali del secolo attuale. Queste parole di Nietzsche, scritte a proposito dei sapienti arcaici, bene si adattano a configurare la posizione del nostro filosofo: «Attraverso i desolati intervalli di epoche lontane, un gigante rivolge la parola a un altro gigante, e questo colloquio tra spiriti elevati prosegue senza curarsi dei nani petulanti e chiasso­si che strisciano in basso» (PHG 273).

19. Con Colli la filosofia ritorna a un «alto livello» teoretico. In lui troviamo la precisa volontà di analizzare e dominare tutti i problemi della cono­scenza, della metafisica e della logica. Ha avuto il coraggio, oltre la capacità, di questa azione gran­diosa, poiché tenere il passo dei grandi pensatori è un rischio terribile. Ma questa elevata posizione assunta ha un vantaggio: rende, come egli voleva, più acuto e perentorio il suo giudizio su ogni questione cruciale.

20. Il contrario accade ai filosofi libreschi che circolano attualmente nelle Università, nei conve­gni, nelle riviste e persino nei giornali; costoro hanno a che fare con la filosofia solo per soddisfare qualche fine pratico o politico o professionale. Nelle loro ricerche non si preoccupano di affronta­re i grandi del passato, essendo le loro capacità limitate alle chiacchiere dei colleghi. Oppure, quan­do se ne occupano, i loro scritti si esauriscono in vuote astrazioni, che non toccano il logos autentico. Privo di razionalità e di intuizione, il discorso di costoro parte da «concetti arbitrari e derivati», accettati solo perché, oscuri e difficili, suonano filosofici.

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