Scritto in occasione
dell'incontro organizzato da Angelo Tonelli: “Il giovane Colli.
Simposio in onore di Enrico Colli curatore delle opere postume di
Giorgio Colli”- Lerici 26 gennaio 2013 (modificato: ottobre 2013)
La recente pubblicazione
di alcuni scritti giovanili di Giorgio Colli, nel volume Apollineo
e Dionisiaco (Adelphi, Milano 2010), ci permette di chiarire il
pensiero del filosofo sull’arte, con alcuni esempi, che integrano e
spiegano gli aforismi dedicati all’arte contenuti nella sezione
“Arte è ascetismo” di Dopo Nietzsche (1974).
Tra gli studiosi di Colli
queste note, che comprendono quelle sull’arte figurativa erano
molto attese, visto che durante il Convegno pisano nel novembre del
2004 ne era stata data notizia.
Il problema centrale
della teoria di Colli riguarda l’espressione del dionisiaco. Qui
Colli segue Nietzsche. Ecco cosa scrive nel ’72: “Grande scoperta
di Nietzsche sull’arte: non si deve considerare la rappresentazione
come tale…, ma di vederla in relazione a un fondo dionisiaco…
Questo è l’unico metro per scoprire [c.n.] la grande
arte…”. (La ragione errabonda, fr.505).
Non ci resta che capire
come si misura la vera grande arte; poiché come
scoprirla lo sappiamo già.
Riassumiamo brevemente
quanto sostiene Colli negli aforismi dedicati all’arte contenuti
nella sezione “Arte è ascetismo” di Dopo Nietzsche
(1974). Anzitutto per lui “l’arte non ha un oggetto”. L’artista
non crea nulla, non imita nulla, non inventa, ma ritrova qualcosa nel
passato: estrae gemme nascoste dal tessuto della vita. Per cui a
rigore non c’è un oggetto, reale e ideale che sia, che
l’arte debba necessariamente esprimere. Ogni estetica che parte
dall’oggetto della rappresentazione artistica, percorre una strada
sbagliata.
Colli precisa che
“artista” non è chi “scrive poesie, o le cui poesie sono
considerate arte per giudizio generale, o di alcuni esperti, bensì
colui che si comporta nel modo” che spiega: l’artista è
colui che sapendo retrocedere nel passato recupera “miracolosamente”
le rappresentazioni nascenti, quegli attimi inesprimibili che non si
trovano nella coscienza quotidiana dell’uomo. Intesi come primo
ricordo dell’immediatezza della vita, questi attimi sono il
materiale onde si costituisce l’individuo, per cui il recupero è
possibile per chi sappia regredire, secondo la traccia del tempo
invertito, in direzione di una condizione che precede quella
dell’individuazione, l’immediato.
La tecnica dell’artista
non consiste nelle capacità espressive, nelle abilità
manuali, bensì nella capacità di rievocare il passato:
si tratta dunque di una tecnica interiore, definita ascetica.
Il distacco dalla vita
attuale, al di là del prospettive contingenti relative alla
psicologia dell’artista, è decisivo e rivelatore della vera
arte.
L’arte inverte il corso
del tempo, la sua spinta dal presente verso il passato è
contraria alla spinta cosmologica. Essa toglie la maschera alla
necessità che plasma incontrastata la nostra vita, si oppone
al trascinamento temporale, al flusso delle cose e ai loro nessi; si
oppone al tralignamento connaturato a ogni manifestazione della
realtà vivente, che appare come esistenza organica, ordinata,
corposa, mentre è astrazione, anchilosato cristallizzarsi di
categorie.
L’artista ha lacerato
le ragnatele dell’astrazione, strappato l’ordito dell’ottimismo,
in cui la necessità dissimula la sua violenza con il miraggio
della finalità.
Come profondità o
come passato l’arte recupera un universo in cui la necessità
si mostra nella sua fluidità e il giuoco nel suo trionfo, un
mondo in cui regna la mania, e la vita appare privata del
dolore dell’individuazione. Una sorta di “infanzia”, in cui gli
attimi, componenti elementari, che agglutinandosi fanno sorgere
l’individuo, si liberano nella loro incandescente veemenza.
Chi riesce a demolire la
falsa corposità del mondo, a liberarsi dallo spettro della
necessità e va oltre, trova la violenza mescolata al gioco
(Dioniso).
L’arte non assomiglia a
nulla di questo mondo: quasi tutte le perfezioni e le squisitezze di
questo mondo si gustano nell’arte, proprio perché qui la
vita appare depurata dalla violenza.
Il cammino dell’artista
ascendente, dal presente al passato di ricordo in ricordo, in
direzione dell’immediato, ha poi un riflusso, in cui l’artista
comincia dire quello che ha veduto. Dopo aver vissuto nel passato,
ora vuole ritornare per raggiungere con la sua opera gli altri
uomini. Ora opera come un demiurgo, arricchisce la trama delle
rappresentazioni con la sua espressione artistica. Nell’opera
d’arte tutti gli elementi della cosmologia (tempo, spazio, numero,
causalità, necessità) sono accettati. Tuttavia gli
attimi recuperati, date le differenti condizioni rappresentative che
caratterizzano la vita ascendente da quella discendente, non sono
riprodotti fedelmente: può accadere per esempio che quanto era
iniziale nel recupero risulti finale nell’opera.
L’aspetto interessante
di questa corsa all’indietro dell’artista è che
l’immediato deve trovare un’espressione nel cammino discendente:
è questa l’acme dell’opera d’arte. Prezioso suggerimento
che la critica d’arte dovrebbe far proprio.(Dopo Nietzsche,
pp. 113-128)
Dunque il contenuto
dell’arte è il dionisiaco. Qui, dove la violenza è
mescolata al giuoco, è assente ogni condizione astratta. Quali
sono i significati intrinseci di Dioniso? Sappiamo che è il
dio delle contraddizioni, di tutte le contraddizioni (gioia e dolore,
caso e necessità, estasi e spasimo, ecc.)
Se l’arte vera deve
essere espressione del dionisiaco dovrebbe presentare l’ambiguità
primordiale, carattere contraddittorio del dionisiaco.
In Colli appare evidente
che il “contenuto dionisiaco”, che può essere espresso in
forme, colori, suoni, volumi, parole, è qualcosa che riguarda
la vita interiore dell’artista. Quelle che egli altrove ha chiamato
“vissutezze” sarebbero il contenuto dell’opera. Quali esempi ci
offre Colli a sostegno della sua tesi? A parte la generica
affermazione in cui dice che non gli “sembra azzardato sostenere
che qualcuno si sia comportato così”, per quanto riguardo il
comportamento. Nel finale di un aforisma, non pubblicato in Dopo
Nietzsche, presente nei suoi Quaderni postumi (La ragione
errabonda, fr.530n), parlando dell’arte intesa come
allontanamento dal presente, Colli aggiungeva: “ciò è
documentabile in generale, in Hölderlin
e Leopardi, in Ariosto e Cervantes, in Mozart e Wagner; in certi casi
poi è degna di meditazione la struggente immersione nel
passato, come in Stendhal e Proust”. Questo breve elenco si
completa con altre tre grandi anime dell’età moderna:
Shakespeare, Beethoven e Dostoevskij, nominati in altri luoghi.
Mancavano nell’elenco
precedente gli artisti figurativi, ma ora, grazie agli scritti appena
pubblicati (Apollineo e dionisiaco), sappiamo che nel novero
dei grandi devono essere inseriti: A. del Pollaiolo, Botticelli,
Raffaello, Leonardo, Piero della Francesca, Tiziano, Michelangelo e
altri, tutti interpretati secondo le categorie dell’apollineo e del
dionisiaco.
Diventa chiaro ora
l’aforisma, probabilmente scritto pensando proprio al Pollaiolo:
“Il paesaggio toscano diventa carico di mistero nella pittura del
Rinascimento: dietro si nasconde la vita dell’autore, i nessi
personali sfuggono. In quel mistero si esprime la volontà di
celarsi, il possesso si un’altra ricchezza” (DN 150). Cfr AD
169-170 [aforisma citato nel film di Marco Colli Giovanni senza
pensieri].
Vincolati dal tema da
rappresentare, agli artisti del Rinascimento, sembra dire Colli, non
rimaneva altro spazio che il paesaggio per esprimere le proprie
vissutezze. I contenuti della religione ebraico-cristiana mal si
adattano all’espressione del dionisiaco. E’ dunque questo un
esempio per giudicare ciò che è dionisiaco? Aver visto
la “verità delle ultime cose” in una pianura (cfr.AD
169-170), ci lascia sorpresi, se dimentichiamo che si tratta di
scritti giovanili.
Schopenhauer invece,
distinguendo il significato reale da quello nominale, aveva visto
nella quiete dei volti e nell’espressione dei santi e delle madonne
la soppressione della volontà, il riflesso della più
perfetta conoscenza (Il mondo come volontà e
rappresentazione, § 48).
Dalle osservazioni di
Colli, dobbiamo pensare che il genere del paesaggio offre la migliore
occasione all’artista per esprimere le proprie vissutezze? E se un
artista volesse esprimere il proprio vissuto con un’opera d’arte
astratta, se volesse simbolizzare i ricordi dell’immediato
attraverso l’espressionismo astratto, saremmo in grado, noi
fruitori, di dire che qui viene espresso il dionisiaco? E con quali
criteri? Se l'immediato “deve trovare un'espressione “, il
semplice legame simbolico tra interiorità ed espressione non
garantisce quella continuità che ci permetterebbe a noi
fruitori di cogliere l'acme.
Prendiamo ancora
Apollineo e dionisiaco. Qui egli vuole arrivare a un concetto
di dionisiaco più vasto di quello dato da Nietzsche ne La
nascita della tragedia. Questo concetto viene così
definito da Colli: “esso è la fase di aspirazione intima di
certi uomini eccezionali prima che essi giungano a qualsiasi
espressione, l’impulso a superare tutto ciò che è
umano … il dionisiaco individuale [e non collettivo] è
interiorità pura, sentimento e volontà denudati da
immagini” (AD 111).
Il dionisiaco così
inteso è stato per Colli il criterio per giudicare i sapienti
e le grandi anime del mondo moderno. In questo atteggiamento egli
accoglie il giudizio già espresso da Nietzsche, il quale aveva
affermato: “Tutto ciò che ora chiamiamo cultura, educazione,
civiltà, dovrà un giorno comparire davanti
all’infallibile giudice Dioniso”. Rispetto agli scritti della
maturità, in questi scritti postumi c’è l’orgoglio
giovanile, quella certezza che nel tentativo di distinguersi dalla
mediocrità stabilisce delle gerarchie nell’ambito delle
“verità interiori” (AD 168).
Tuttavia, siccome è
sempre stato Colli a farci riflettere, per questa occasione tocchiamo
alcune questioni che rimangono aperte nel pensiero di Colli e le
differenze che ci sono rispetto agli scritti successivi, soprattutto
in relazione al riconoscimento del valore espressivo di un’opera
d’arte.
In Apollineo e
dionisiaco Colli parla dell’arte apollinea, che definisce arte
umana; essa, non essendo interiorità pura come il dionisiaco
(sovrumana), è legata, per quanto riguarda la sua creazione,
all’immagine, all’oggetto, che è il principio e punto di
arrivo dell’attività artistica.
Negli aforismi dedicati
all’arte in Dopo Nietzsche, Colli estende il dionisiaco a
tutta l’arte senza alcuna distinzione per quanto riguarda il genere
espressivo. E sarà la presenza del dionisiaco, recuperato
attraverso una tecnica interiore, a determinare secondo lui l’arte
vera; ed essendo il dionisiaco interiorità pura, negli
aforismi di DN, l’arte perciò “non ha un oggetto”.
Ecco dunque la questione:
non è tanto l’ascetismo o l’allontanamento dal presente il
vero tema dell’estetica di Colli, quanto il carattere simbolico
dell’arte dionisiaca. Dopo la corsa all’indietro, in direzione
dell’immediato, l’artista si serve di oggetti di questo mondo per
tradurre le gemme nascoste dal tessuto della vita.
Il nocciolo del problema
è proprio questo: se l’arte non è in rapporto diretto
con gli oggetti sensibili appartenenti al tessuto rappresentativo,
non ha con essi un collegamento naturale, come è possibile
scoprirne il valore espressivo in senso dionisiaco?
Quando Colli suggerisce
alla critica musicale, l’indicazione delle battute in cui si
attinge il culmine della vita interiore del musicista (l’acme
dell’opera d’arte), sa di poterlo fare benissimo per la musica.
Qui estetica realistica e estetica idealistica non hanno nessuna
competenza; non c’è nessuna imitazione e non c’è
veramente bisogno di giudicare a partire dell’oggetto della
rappresentazione.
Tuttavia, anche per
quanto riguarda la musica, basti pensare ai giudizi di Nietzsche su
Wagner, per comprendere quanto questo compito sia difficile. Cosa è
una musica dionisiaca? Ognuno nella sua anima dice di sentirlo e
saperlo con certezza. Lo stesso Colli, in questi scritti giovanili,
dice che “l’intensità della commozione non è in
rapporto con il valore dell’opera d’arte… Non solo ma si può
essere ugualmente esaltati da una sinfonia di Beethoven e da un pezzo
di musica da ballo…” (AD 168-169).
Colli ha dato un
suggerimento (“non occorre altro per chi sappia seguire”) alla
critica d’arte ma non un criterio. Insomma con gli scritti
pubblicati una serie di questioni rimanevano aperte e questi scritti
giovanili non aiutano affatto.
Noi possiamo comprendere
e condividere ciò che Colli scrive a proposito di Wagner
(considerato in AD musicista dionisiaco in opposizione a Verdi
musicista umano): “Quello che si manifesta in Wagner,
l’illusionismo…la falsificazione, la contraffazione, lo
sconquasso premeditato di ogni archetipo interiore, di ogni lievità,
di ogni gioco… l’esaltazione dell’oscuro, del torbido…ecc.”
(DN 119). Però ciò ci dice che i giudizi di gusto non
permettono di dire alcunché sul valore espressivo di un’opera
d’arte. Nemmeno Kant è riuscito a risolvere la modalità
del giudizio di gusto, se non appellandosi alla comunicabilità
del giudizio basata sul senso comune. Ma il senso comune non rende
oggettiva la necessità tra piacere e l’oggetto giudicato
“bello” (cfr. Critica del Giudizio, §§ 18-22).
Inoltre, giudicare secondo il piacere non consente di stabilire a
priori quale oggetto debba accordarsi col gusto. Il giudizio di gusto
puro si riduce alla fine a un piacere dovuto più all’accordo
delle facoltà dell’animo che all’oggetto stesso (idem
§§ 9 e 15). Fine della critica del gusto; che può
giudicare come vuole: “bello”, “dionisiaco”, “apollineo”,
ecc., cioè tutto ciò che si accorda con l’anima.
Prima conclusione: da
parte del fruitore non è possibile avere un criterio,
indipendente dal gusto.
A meno che non ci sia il
riconoscimento generale di una “gerarchia” nell’ambito delle
“verità interiori” (AD 168). Ricordiamo che Colli ha
criticato Nietzsche quando questi aveva giudicato dionisiaca la
scultura di Scopa e Prassitele, impensabile secondo lui in artisti
del IV secolo! Lo “scopritore” del dionisiaco avrebbe dunque
fallito il bersaglio. Invece Colli considerava dionisiaci i Prigioni
di Michelangelo; per noi non è così.
Consideriamo ora la
questione dalla parte dell’artista.
Il dionisiaco “è
l’impulso a superare tutto ciò che è umano”. Con
ciò Colli si riferisce a una “esperienza di estasi
sovrumana”, che gli uomini più grandi operano con distacco
da tutto ciò che è alla portata di una collettività
di uomini. Si tratta di un’attività spirituale che rivolge
le proprie energie all’interiorità e disdegna ogni
espressione, ogni creazione. Liberato da ogni immagine il dionisiaco
è inteso dunque come “interiorità pura”. In Dopo
Nietzsche, questa interiorità pura costituisce la
grandezza d’animo, che muove in direzione opposta alla volontà
di potenza
L’apollineo invece
viene ad assumere un altro significato rispetto a quello
nietzscheano; esso è lo stadio creativo, l’espressione di
un’attività spirituale, il momento in cui l’artista si
realizza attraverso l’apparenza. Ma dovendo spiegare lo stato
sognante dell’artista apollineo, lo stato interiore che precede
l’espressione, Colli dice che anche in esso esiste un impulso di
tipo dionisiaco, cioè una tendenza a superare ciò che è
umano.
Ma la differenza
sostanziale, rispetto agli aforismi di DN è questa: qui Colli
pone una differenza tra l’arte umana e la creazione dionisiaca.
Omero, Dante,
Shakespeare, i grandi artisti umani, mentre ci parlano della furia
delle passioni umane, da esse, attraverso uno stato sognante,
contemplativo, se ne distaccano. Essi creano attraverso l’umano, e
a rigore per gli artisti umani non si dovrebbe parlare di dionisiaco,
in quanto il loro punto di partenza e di arrivo è sempre
un’immagine, un oggetto (AD 128-129). In DN la distinzione del
genere umano-apollineo, scompare.
Ricordiamo che negli
aforismi di DN Colli dice che la vera arte non ha un oggetto, è
dunque, come si giunge con il solo impulso dionisiaco a esprimere
qualcosa?
Il dionisiaco vero,
secondo Colli, si manifesta in maniera differente: l’impulso
all’interiorizzazione avviene spontaneamente, senza che un’immagine
o un fatto vengano a determinarlo. Esso sorge da un disgusto supremo
per l’umano e dall’aspirazione cosciente di volerlo superare.
Agli spiriti dionisiaci non interessa la creazione, dal momento che i
loro sforzi sono diretti all’interiorità. Se mai, aggiunge,
essi si preoccupano di mantenere un comportamento coerente nella
vita.
Per Colli “dionisiaco”
in termini teoretici è colui che è riuscito a liberarsi
completamente dell’astrazione. Ciò che porta al di là
di essa è uno strappo, un distacco. Siccome l'arte non ha un
oggetto, per Colli quindi l'artista che si immedesima nel suo
oggetto, si esalta con la sua immagine, si immerge in modo intenso
nel flusso delle rappresentazioni, si “illude sulla conquista delle
scaturigini della vita” (cfr. La ragione errabonda, fr.
550). L'artista apollineo dunque non è sovrumano.
Colli non distingue i
generi artistici, come aveva fatto Schopenhauer. In una teoria
estetica, diventa arduo porre come origine dell'arte apollinea (in
senso nietzscheano) il concetto di interiorità pura. In una
teoria dell’arte in ragione dei generi espressivi bisognerebbe
distinguere tra dionisiaco vissuto e dionisiaco
contemplato. E a rigore, senza voler essere irriverenti, ciò
di cui lui parla, il dionisiaco vissuto, le vissutezze, è
invece il tipico atteggiamento “artistico”, che giunge poi alla
simbolizzazione innaturale, mentre quello contemplato, in cui il
distacco sopraggiunge dal contatto diretto con la vita, è
quello più filosofico.
Conclusione
Dunque, per il
carattere simbolico della sua espressione, il dionisiaco, nella sua
unica formulazione di “interiorità pura”, lascia
problematica e non risolta quella continuità, che Colli
cercava (cfr. AD 189) tra interiorità ed espressione, che
invece dovrebbe garantire la sua autenticità; e per ciò
risulta fuorviante se estesa a tutta l’arte.
Colli ha esteso il
misticismo nordico (DN 179), che si esprime in modo eccellente nella
musica, (quella romantica però, in cui più che alla
coincidentia oppositorum dionisiaca assistiamo all’alternarsi
di gioia e dolore;cfr. PHK 204n), a tutta l’arte, confondendo i
generi espressivi. Mentre ha lasciato fuori dal suo ambito il
misticismo mediterraneo, che richiede di essere compreso e spiegato
nella trasfigurazione visionaria, apollinea, di vissutezze legate a
individui, oggetti, immagini di questo mondo.
Insomma se l’opera
deve essere secondo il contenuto dionisiaco
“simbolo della duplice natura del mondo” (DN 150), l’arte
figurativa, umana, è sicuramente la sua espressione più
visibile.
Nell’introduzione al
secondo volume della Sapienza greca, Colli si chiede: come si
comunica la più alta sapienza di Dioniso? La risposta è
illuminante: “col rappresentare l’arresto di un’azione in una
istantaneità sconvolgente, in un quadro culminante […] Un
esempio è descrizione dell’attimo in cui Core fu rapita…
nell’istante si manifesta allo sguardo la contraddizione metafisica
di Dioniso: bellezza e crudeltà coincidono” (SG II 21).
Quindi, o il
dionisiaco non può avere una sua rappresentazione adeguata, e
nemmeno si potrà limitare alla sola musica, oppure bisogna
correggere il suo concetto: non può essere inteso solo come
“interiorità pura”, a meno che una faccenda personale (che
a piacere ognuno può considerare divina) voglia diventare il
segreto del mondo.
Lettera ad Angelo Tonelli
Lettera ad Angelo Tonelli
Carissimo Angelo,
spero che questi chiarimenti servano a far comprendere quanto
scrivo nella relazione, che pure ho limato in qualche punto.
Il dionisiaco inteso
come interiorità pura, privo di contenuto, rischia di rimanere
una faccenda “personale”. Se l'arte non ha un oggetto, allora
qualsiasi oggetto di questo mondo può diventare il simbolo di
una vissutezza. Ma legandosi al simbolico, l'artista non offre a chi
vede, ascolta o legge la possibilità di intuire il dionisiaco,
di cui pensa di aver caricato l'oggetto.
Quando Nietzsche in
Genealogia della morale (III 4)
afferma che “un perfetto e completo artista è
staccato per l'eternità dal “reale”, dall'effettuale”,
pensiero che Colli condivide, si riferiva ad artisti come Omero e
Goethe, i quali non avrebbero creato i loro capolavori se fossero
stati i loro eroi. Anche Colli condanna la tipica velleità
dell'artista moderno che consiste nel voler vivere ciò che
rappresenta (e aggiunge che è proprio per questo gli
interessa l'arte). Quindi, io penso che attraverso il concetto di
dionisiaco come interiorità pura si rischi il “personale”
nell'arte.
Il dionisiaco, come
interiorità pura, trova l'espressione più appropriata
nella musica. Essa è il genere artistico per il dionisiaco
vissuto. Gli altri generi artistici – e a questo proposito
Schopenhauer ha visto giusto ponendo le differenze – sono legati al
dionisiaco contemplato o apollineo. Quest'altro tipo di interiorità,
secondo me, è più “filosofica” della precedente. Si
intuisce nel mondo l'essenza della vita, non nelle ascetiche e
mistiche vissutezze personali; che tra l'altro non possono costituire
un fondamento o un principio per la metafisica ma debbono essere
limitate a una gnoseologia.
Io credo che quanto
più l'interiorità pura risulti condizionata
dall'individuazione tanto più diventa difficile trovare ciò
che ne costituisce l'análogon
– il simbolo invece non ha nessun rapporto “naturale” con
l'interiorità. Del
resto le grandi anime hanno vissuto il dionisiaco esprimendolo in
forme apollinee ad esso “concatenate”.
Secondo
me è possibile il riconoscimento generale di una “gerarchia”
nell’ambito delle “verità interiori” (cfr. AD 168), solo
se si chiarisce il contenuto
del dionisiaco.
Leggo
dal Manuale di
armonia (Milano,
il Saggiatore 1988)
di
Arnold Schönberg: “L'attività artistica è
istintiva; poca influenza vi prende la coscienza, ed egli ha la
sensazione che ciò che fa gli sia dettato da dentro, che egli
lo faccia solo obbedendo alla volontà di qualche forza che è
in lui e di cui ignora le leggi. Egli non è che l'esecutore di
una volontà a lui celata, dell'istinto, dell'inconscio che è
in lui... a cui deve obbedire”. Il risultato di questo impulso è
la musica dodecafonica, la musica seriale, per sua essenza
concettuale. Ma diventa difficile “confutarla” quando il musicista
dichiara questo: “Chi avrebbe mai l'ardire di voler distinguere
nell'istinto, nell'inconscio, il giusto dal falso?” (pagg.
521-522). Senza un contenuto è possibile giustificare
qualsiasi forma.
Si leggano i frammenti
poetici di Colli, presenti ne La
ragione errabonda, si mettano a confronto le poesie con
l'abbozzo della tragedia su Alessandro, si vedrà chiaramente
che il verso colliano è veramente dionisiaco quando scrive su
Alessandro piuttosto che quando rievoca vissutezze personali.
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