Maurizio
Rossi, Docente di Filosofia
Apollineo
e dionisiaco
La
recente pubblicazione di alcuni scritti giovanili di Giorgio Colli,
nel volume Apollineo e Dionisiaco
(Adelphi, Milano 2010), ci permette di chiarire il pensiero del
filosofo sull’arte, con alcuni esempi, che integrano e spiegano gli
aforismi dedicati all’arte contenuti nella sezione “Arte è
ascetismo” di Dopo Nietzsche
(1974). Tra gli studiosi di Colli queste note, che comprendono quelle
sull’arte figurativa, erano molto attese, visto che durante il
Convegno pisano nel novembre del 2004 ne era stata data notizia.
Il
problema centrale della teoria di Colli riguarda l’espressione del
dionisiaco. Qui Colli
segue Nietzsche. Ecco cosa scrive nel ’72: “Grande
scoperta di Nietzsche sull’arte: non si deve considerare la
rappresentazione come tale…, ma di vederla in relazione a un fondo
dionisiaco… Questo è l’unico metro
per scoprire la grande
arte…”. (La
ragione errabonda, fr.505). Non ci resta che
capire come si misura
la vera grande arte; poiché come scoprirla
lo sappiamo già.
Riassumiamo
brevemente quanto sostiene Colli negli aforismi dedicati all’arte
contenuti nella sezione “Arte è
ascetismo” di Dopo
Nietzsche (1974). Anzitutto per lui “l’arte
non ha un oggetto”. L’artista non crea
nulla, non imita nulla, non inventa, ma ritrova qualcosa nel passato:
estrae gemme nascoste dal tessuto della vita. Per cui a rigore non
c’è un oggetto, reale e ideale che sia, che l’arte debba
necessariamente esprimere. Ogni estetica che parte dall’oggetto
della rappresentazione artistica, percorre una strada sbagliata.
Colli
precisa che “artista”
non è chi “scrive poesie, o le cui
poesie sono considerate arte per giudizio generale, o di alcuni
esperti, bensì colui che si comporta nel modo”
che spiega: l’artista è colui che sapendo retrocedere nel
passato recupera “miracolosamente” le rappresentazioni nascenti,
quegli attimi inesprimibili che non si trovano nella coscienza
quotidiana dell’uomo. Intesi come primo ricordo dell’immediatezza
della vita, questi attimi sono il materiale onde si costituisce
l’individuo, per cui il recupero è possibile per chi sappia
regredire, secondo la traccia del tempo invertito, in direzione di
una condizione che precede quella dell’individuazione, l’immediato.
La
tecnica dell’artista non consiste nelle capacità espressive,
nelle abilità manuali, bensì nella capacità di
rievocare il passato: si tratta dunque di una tecnica interiore,
definita ascetica.
Il
distacco dalla vita attuale, al di là del prospettive
contingenti relative alla psicologia dell’artista, è
decisivo e rivelatore della vera arte.
L’arte
inverte il corso del tempo, la sua spinta dal presente verso il
passato è contraria alla spinta cosmologica. Essa toglie la
maschera alla necessità che plasma incontrastata la nostra
vita, si oppone al trascinamento temporale, al flusso delle cose e ai
loro nessi; si oppone al tralignamento connaturato a ogni
manifestazione della realtà vivente, che appare come esistenza
organica, ordinata, corposa, mentre è astrazione, anchilosato
cristallizzarsi di categorie.
L’artista
ha lacerato le ragnatele dell’astrazione, strappato l’ordito
dell’ottimismo, in cui la necessità dissimula la sua
violenza con il miraggio della finalità.
Come
profondità o come passato l’arte recupera un universo in cui
la necessità si mostra nella sua fluidità e il giuoco
nel suo trionfo, un mondo in cui regna la manía,
e la vita appare privata del dolore dell’individuazione. Una sorta
di “infanzia”, in cui gli attimi,
componenti elementari, che agglutinandosi fanno sorgere l’individuo,
si liberano nella loro incandescente veemenza.
Chi
riesce a demolire la falsa corposità del mondo, a liberarsi
dallo spettro della necessità e va oltre, trova la violenza
mescolata al gioco
(Dioniso).
L’arte
non assomiglia a nulla di questo mondo: quasi tutte le perfezioni e
le squisitezze di questo mondo si gustano nell’arte, proprio perché
qui la vita appare depurata dalla violenza.
Il
cammino ascendente
dell’artista, dal presente al passato di
ricordo in ricordo, in direzione dell’immediato, ha poi un
riflusso, in cui l’artista comincia dire quello che ha veduto. Dopo
aver vissuto nel passato, ora vuole ritornare per raggiungere con la
sua opera gli altri uomini. Ora opera come un demiurgo, arricchisce
la trama delle rappresentazioni con la sua espressione artistica.
Nell’opera d’arte tutti gli elementi della cosmologia (tempo,
spazio, numero, causalità, necessità) sono accettati.
Tuttavia gli attimi recuperati, date le differenti condizioni
rappresentative che caratterizzano la vita ascendente da quella
discendente, non sono riprodotti fedelmente: può accadere per
esempio che quanto era iniziale nel recupero risulti finale
nell’opera.
L’aspetto
interessante di questa corsa all’indietro dell’artista è
che l’immediato deve
trovare un’espressione nel cammino discendente: è questa
l’acme dell’opera d’arte. Prezioso suggerimento che la critica
d’arte dovrebbe far proprio (Dopo Nietzsche,
pp. 113-128).
Dunque
il contenuto dell’arte
è il dionisiaco.
Qui, dove la violenza è mescolata al giuoco, è assente
ogni condizione astratta. Quali sono i significati intrinseci di
Dioniso? Sappiamo che è il dio delle contraddizioni, di tutte
le contraddizioni (gioia e dolore, caso e necessità, estasi e
spasimo, ecc.)
Se
l’arte vera deve essere espressione del dionisiaco
dovrebbe presentare l’ambiguità primordiale, carattere
contraddittorio del dionisiaco.
In
Colli appare evidente che il “contenuto
dionisiaco”, che può essere espresso
in forme, colori, suoni, volumi, parole, è qualcosa che
riguarda la vita interiore dell’artista. Quelle che egli altrove ha
chiamato “vissutezze”
sarebbero il contenuto dell’opera. Quali esempi ci offre Colli a
sostegno della sua tesi? A parte la generica affermazione in cui dice
che non gli “sembra azzardato sostenere che
qualcuno si sia comportato così”,
per quanto riguarda il comportamento. Nel finale di un aforisma, non
pubblicato in Dopo Nietzsche,
presente nei suoi Quaderni postumi (La ragione
errabonda, fr. 530n),
parlando dell’arte intesa come allontanamento dal presente, Colli
aggiungeva: “ciò è
documentabile in generale, in Hölderlin e Leopardi, in Ariosto e
Cervantes, in Mozart e Wagner; in certi casi poi è degna di
meditazione la struggente immersione nel passato, come in Stendhal e
Proust”. Questo breve elenco si completa
con altre tre grandi anime dell’età moderna: Shakespeare,
Beethoven e Dostoevskij, nominati in altri luoghi.
Mancavano
nell’elenco precedente gli artisti figurativi, ma ora, grazie agli
scritti appena pubblicati (Apollineo e
dionisiaco), sappiamo che nel novero dei
grandi devono essere inseriti: A. del Pollaiolo, Botticelli,
Raffaello, Leonardo, Piero della Francesca, Tiziano, Michelangelo e
altri, tutti interpretati secondo le categorie dell’apollineo
e del dionisiaco.
Diventa
chiaro ora l’aforisma, probabilmente scritto pensando proprio al
Pollaiolo: “Il paesaggio toscano diventa
carico di mistero nella pittura del Rinascimento: dietro si nasconde
la vita dell’autore, i nessi personali sfuggono. In quel mistero si
esprime la volontà di celarsi, il possesso si un’altra
ricchezza” (DN 150). Cfr
AD 169-170 [aforisma citato nel film
di Marco Colli Giovanni senza pensieri].
Vincolati
dal tema da rappresentare, agli artisti del Rinascimento, sembra dire
Colli, non rimaneva altro spazio che il paesaggio per esprimere le
proprie vissutezze. I contenuti della religione ebraico-cristiana mal
si adattano all’espressione del dionisiaco. E’ dunque questo un
esempio per giudicare ciò che è dionisiaco?
Aver visto la “verità delle ultime
cose” in una pianura (cfr.
AD 169-170), ci lascia sorpresi, se dimentichiamo che si tratta di
scritti giovanili.
Schopenhauer
invece, distinguendo il significato reale da quello nominale, aveva
visto nella quiete dei volti e nell’espressione dei santi e delle
madonne la soppressione della volontà, il riflesso della più
perfetta conoscenza (Il mondo come volontà
e rappresentazione, § 48).
Dalle
osservazioni di Colli, dobbiamo pensare che il genere del paesaggio
offre la migliore occasione all’artista per esprimere le proprie
vissutezze? E se un artista volesse esprimere il proprio vissuto con
un’opera d’arte astratta, se volesse simbolizzare i ricordi
dell’immediato attraverso l’espressionismo astratto, saremmo in
grado, noi fruitori, di dire che qui viene espresso il dionisiaco?
E con quali criteri? Se l'immediato
“deve trovare
un'espressione “, il semplice legame
simbolico tra interiorità ed espressione non garantisce quella
continuità che permetterebbe a noi fruitori di cogliere
l'acme.
Prendiamo
ancora Apollineo e dionisiaco.
Qui egli vuole arrivare a un concetto di dionisiaco
più vasto di quello dato da Nietzsche ne La
nascita della tragedia. Questo concetto viene
così definito da Colli: “esso è
la fase di aspirazione intima di certi uomini eccezionali prima che
essi giungano a qualsiasi espressione, l’impulso a superare tutto
ciò che è umano … il dionisiaco individuale [e non
collettivo] è interiorità pura, sentimento e volontà
denudati da immagini” (AD 111).
Il
dionisiaco così inteso è stato per Colli il criterio
per giudicare i Sapienti
e le grandi anime del mondo moderno. In questo atteggiamento egli
accoglie il giudizio già espresso da Nietzsche, il quale aveva
affermato: “Tutto ciò che ora
chiamiamo cultura, educazione, civiltà, dovrà un giorno
comparire davanti all’infallibile giudice Dioniso”.
Rispetto agli scritti della maturità, in questi scritti
postumi c’è l’orgoglio giovanile, quella certezza che nel
tentativo di distinguersi dalla mediocrità stabilisce delle
gerarchie nell’ambito delle “verità
interiori” (AD 168).
Tuttavia,
dal momento che è sempre stato Colli a farci riflettere, per
questa occasione tocchiamo alcune questioni che rimangono aperte nel
pensiero di Colli e le differenze rispetto agli scritti successivi,
soprattutto in relazione al riconoscimento del valore espressivo di
un’opera d’arte.
In
Apollineo e dionisiaco
Colli parla dell’arte apollinea, che definisce arte umana; essa,
non essendo interiorità pura come il dionisiaco
(sovrumana), è legata, per quanto riguarda la sua creazione,
all’immagine, all’oggetto, che è il principio e punto di
arrivo dell’attività artistica.
Negli
aforismi dedicati all’arte in Dopo
Nietzsche, Colli estende il dionisiaco a
tutta l’arte senza alcuna distinzione per quanto riguarda il genere
espressivo. E sarà la presenza del dionisiaco,
recuperato attraverso una tecnica interiore, a determinare secondo
lui l’arte vera; ed essendo il dionisiaco interiorità
pura, negli aforismi di DN, l’arte perciò
“non ha un oggetto”.
Ecco
dunque la questione: non è tanto l’ascetismo o
l’allontanamento dal presente il vero tema dell’estetica di
Colli, quanto il carattere simbolico dell’arte dionisiaca. Dopo la
corsa all’indietro, in direzione dell’immediato,
l’artista si serve di oggetti di questo mondo per tradurre le gemme
nascoste dal tessuto della vita.
Il
nocciolo del problema è proprio questo: se l’arte non è
in rapporto diretto con gli oggetti sensibili appartenenti al tessuto
rappresentativo, non ha con essi un collegamento naturale, come è
possibile scoprirne il valore espressivo in senso dionisiaco?
Quando
Colli suggerisce alla critica musicale l’indicazione delle battute
in cui si attinge il culmine della vita interiore del musicista
(l’acme dell’opera d’arte), sa di poterlo fare benissimo per la
musica. Qui estetica realistica e estetica idealistica non hanno
nessuna competenza; non c’è nessuna imitazione e non c’è
veramente bisogno di giudicare a partire dell’oggetto della
rappresentazione.
Tuttavia,
anche per quanto riguarda la musica, basti pensare ai giudizi di
Nietzsche su Wagner, per comprendere quanto questo compito sia
difficile. Cosa è una musica dionisiaca? Ognuno nella sua
anima dice di sentirlo e saperlo con certezza. Lo stesso Colli, in
questi scritti giovanili, dice che “l’intensità
della commozione non è in rapporto con il valore dell’opera
d’arte… Non solo ma si può essere ugualmente esaltati da
una sinfonia di Beethoven e da un pezzo di musica da ballo…”
(AD 168-169).
Colli
ha dato un suggerimento (“non occorre altro
per chi sappia seguire”) alla critica
d’arte ma non un criterio. Insomma con gli scritti pubblicati una
serie di questioni rimanevano aperte e questi scritti giovanili non
aiutano affatto.
Noi
possiamo comprendere e condividere ciò che Colli scrive a
proposito di Wagner (considerato in AD musicista dionisiaco in
opposizione a Verdi musicista umano): “Quello
che si manifesta in Wagner, l’illusionismo…la falsificazione, la
contraffazione, lo sconquasso premeditato di ogni archetipo
interiore, di ogni lievità, di ogni gioco… l’esaltazione
dell’oscuro, del torbido…ecc.” (DN
119). Però ciò ci dice che i giudizi di gusto non
permettono di dire alcunché sul valore espressivo di un’opera
d’arte. Nemmeno Kant è riuscito a risolvere la modalità
del giudizio di gusto, se non appellandosi alla comunicabilità
del giudizio basata sul senso comune. Ma il senso comune non rende
oggettiva la necessità tra piacere e l’oggetto giudicato
“bello” (cfr.
Critica del Giudizio,
§§ 18-22). Inoltre, giudicare secondo il piacere non
consente di stabilire a priori quale oggetto debba accordarsi col
gusto. Il giudizio di gusto puro si riduce alla fine a un piacere
dovuto più all’accordo delle facoltà dell’animo che
all’oggetto stesso (idem
§§ 9 e 15). Questi sono il limiti di una
critica del gusto: se non emerge dall'opera il “correlato
oggettivo” (cfr. Schopenhauer, Mondo,
III
§ 51), l'animo umano potrà giudicare
“bello”,
“dionisiaco”,
“apollineo”,
ecc.,
tutto ciò che si accorda con esso.
Prima
conclusione: da parte del fruitore non è possibile avere un
criterio, indipendente dal gusto.
A meno
che non ci sia il riconoscimento generale di una “gerarchia”
nell’ambito delle “verità interiori” (AD 168).
Ricordiamo che Colli ha criticato Nietzsche quando questi aveva
giudicato dionisiaca la scultura di Scopa e Prassitele, impensabile
secondo lui in artisti del IV secolo! Lo “scopritore” del
dionisiaco avrebbe
dunque fallito il bersaglio. Invece Colli considerava dionisiaci i
Prigioni di
Michelangelo; per noi non è così.
Consideriamo
ora la questione dalla parte dell’artista.
Il
dionisiaco “è
l’impulso a superare tutto ciò che è umano”.
Con ciò Colli si riferisce a una “esperienza
di estasi sovrumana”, che gli uomini più
grandi operano con distacco da tutto ciò che è alla
portata di una collettività di uomini. Si tratta di
un’attività spirituale che rivolge le proprie energie
all’interiorità e disdegna ogni espressione, ogni creazione.
Liberato da ogni immagine il dionisiaco
è inteso dunque come “interiorità
pura”. In Dopo
Nietzsche, questa interiorità
pura costituisce la grandezza d’animo, che
muove in direzione opposta alla volontà
di potenza
L’apollineo
invece viene ad assumere un altro significato rispetto a quello di
Nietzsche: esso
è lo stadio creativo, l’espressione di un’attività
spirituale, il momento in cui l’artista si realizza attraverso
l’apparenza. Ma dovendo spiegare lo stato sognante dell’artista
apollineo, lo stato interiore che precede l’espressione, Colli dice
che anche in esso esiste un impulso di tipo dionisiaco, cioè
una tendenza a superare ciò che è umano.
Ma la
differenza sostanziale, rispetto agli aforismi di DN è questa:
qui Colli pone una differenza tra l’arte umana e la creazione
dionisiaca.
Omero,
Dante, Shakespeare, i grandi artisti umani, mentre ci parlano della
furia delle passioni umane, da esse, attraverso uno stato sognante,
contemplativo, si distaccano. Essi creano attraverso l’umano, e a
rigore per gli artisti umani non si dovrebbe parlare di dionisiaco,
in quanto il loro punto di partenza e di arrivo è sempre
un’immagine, un oggetto (AD 128-129). In DN la distinzione del
genere umano-apollineo, scompare.
Ricordiamo
che negli aforismi di DN Colli dice che la vera arte non ha un
oggetto; e dunque, come si giunge con il solo impulso dionisiaco a
esprimere qualcosa?
Il
dionisiaco vero,
secondo Colli, si manifesta in maniera differente: l’impulso
all’interiorizzazione avviene spontaneamente, senza che un’immagine
o un fatto vengano a determinarlo. Esso sorge da un disgusto supremo
per l’umano e dall’aspirazione cosciente di volerlo superare.
Agli spiriti dionisiaci non interessa la creazione, dal momento che i
loro sforzi sono diretti all’interiorità. Se mai, aggiunge,
essi si preoccupano di mantenere un comportamento coerente nella
vita.
Per
Colli dionisiaco in
termini teoretici è colui che è riuscito a liberarsi
completamente dell’astrazione. Ciò che porta al di là
di essa è uno strappo, un distacco. Poiché l'arte non
ha un oggetto, per Colli quindi l'artista che si immedesima nel suo
oggetto, si esalta con la sua immagine, si immerge in modo intenso
nel flusso delle rappresentazioni, si “illude
sulla conquista delle scaturigini della vita”
(cfr. La
ragione errabonda, fr. 550). L'artista
apollineo dunque non è sovrumano.
Colli
non distingue i generi artistici, come aveva fatto Schopenhauer. In
una teoria estetica, diventa arduo porre come origine dell'arte
apollinea (in senso nietzscheano) il concetto di interiorità
pura. In una teoria dell’arte in ragione dei generi espressivi
bisognerebbe distinguere tra dionisiaco
vissuto e dionisiaco
contemplato. E a rigore, senza voler essere
irriverenti, ciò di cui lui parla, il dionisiaco
vissuto, le vissutezze, è invece il tipico atteggiamento
“artistico”, che giunge poi alla simbolizzazione innaturale,
mentre quello contemplato, in cui il distacco sopraggiunge dal
contatto diretto con la vita, è quello più filosofico.
Conclusione
Per il
carattere simbolico della sua espressione, il dionisiaco, nella sua
unica formulazione di “interiorità
pura”, lascia problematica e non risolta
quella continuità, che Colli cercava (cfr.
AD 189) tra interiorità ed espressione, che invece dovrebbe
garantire la sua autenticità; e per ciò risulta
fuorviante se estesa a tutta l’arte.
Colli ha
esteso il misticismo nordico (DN 179), che si esprime in modo
eccellente nella musica (quella romantica però, in cui più
che alla coincidentia oppositorum
dionisiaca assistiamo all’alternarsi
di gioia e dolore; cfr.
PHK 204n), a tutta l’arte, confondendo i generi espressivi. Mentre
ha lasciato fuori dal suo ambito il misticismo mediterraneo, che
richiede di essere compreso e spiegato nella trasfigurazione
visionaria, apollinea, di vissutezze legate a individui, oggetti,
immagini di questo mondo.
Insomma
se l’opera deve essere secondo il contenuto
dionisiaco “simbolo della duplice natura del
mondo” (DN 150), l’arte figurativa,
umana, è sicuramente la sua espressione più visibile.
Nell’introduzione
al secondo volume della Sapienza greca,
Colli si chiede: come si comunica la più
alta sapienza di Dioniso? La risposta è illuminante: “col
rappresentare l’arresto di un’azione in una istantaneità
sconvolgente, in un quadro culminante […] Un esempio è
descrizione dell’attimo in cui Core fu rapita… nell’istante si
manifesta allo sguardo la contraddizione metafisica di Dioniso:
bellezza e crudeltà coincidono” (SG
II 21).
Quindi,
o il dionisiaco non
può avere una sua rappresentazione adeguata, e nemmeno si
potrà limitare alla sola musica, oppure bisogna correggere il
suo concetto: non può essere inteso solo come “interiorità
pura”, a meno che una faccenda personale
(che a piacere ognuno può considerare divina) voglia diventare
il segreto del mondo.
Addenda
Il
dionisiaco inteso come interiorità pura, privo di contenuto,
rischia di rimanere una faccenda “personale”. Se l'arte non ha un
oggetto, allora qualsiasi oggetto di questo mondo può
diventare il simbolo di una vissutezza. Ma legandosi al simbolico,
l'artista non offre a chi vede, ascolta o legge la possibilità
di intuire il dionisiaco, di cui pensa di aver caricato l'oggetto.
Quando
Nietzsche in Genealogia
della morale (III 4) afferma
che “un perfetto e completo artista è
staccato per l'eternità dal ‘reale’, dall'effettuale”,
pensiero che Colli condivide, si riferiva ad
artisti come Omero e Goethe, i quali non avrebbero creato i loro
capolavori se fossero stati i loro eroi. Anche Colli condanna la
tipica velleità dell'artista moderno che consiste nel voler
vivere ciò che rappresenta (e aggiunge che è proprio
per questo gli interessa l'arte). Quindi, io penso che attraverso il
concetto di dionisiaco come
interiorità pura si rischi il
“personale” nell'arte.
Il
dionisiaco, come
interiorità pura,
trova l'espressione più appropriata nella musica. Essa è
il genere artistico per il dionisiaco
vissuto. Gli altri generi artistici – e a questo proposito
Schopenhauer ha visto giusto ponendo le differenze – sono legati al
dionisiaco contemplato
o apollineo. Quest'altro tipo di interiorità, secondo me, è
più “filosofica” della precedente. Si intuisce l'essenza
della vita nel mondo,
non nelle ascetiche e mistiche vissutezze personali; che tra l'altro
non possono costituire un fondamento o un principio per la metafisica
ma debbono essere limitate a una gnoseologia.
Io
credo che quanto più l'interiorità
pura risulti
condizionata dall'individuazione tanto più diventa difficile
trovare ciò che ne costituisce l'análogon
– il simbolo invece non ha nessun rapporto “naturale” con
l'interiorità. Del resto le grandi anime
hanno vissuto il dionisiaco
esprimendolo in forme apollinee ad esso “concatenate”.
Secondo
me è possibile il riconoscimento generale di una “gerarchia”
nell’ambito delle “verità
interiori” (cfr.
AD 168), solo se si chiarisce il contenuto del dionisiaco.
Leggo dal Manuale
di armonia (Milano 1988)
di Arnold Schönberg: “L'attività
artistica è istintiva; poca influenza vi prende la coscienza,
ed egli ha la sensazione che ciò che fa gli sia dettato da
dentro, che egli lo faccia solo obbedendo alla volontà di
qualche forza che è in lui e di cui ignora le leggi. Egli non
è che l'esecutore di una volontà a lui celata,
dell'istinto, dell'inconscio che è in lui... a cui deve
obbedire”. Il risultato di questo impulso è la musica
dodecafonica, la musica seriale, per sua essenza concettuale. Ma
diventa difficile "confutarla" quando il musicista dichiara
questo: “Chi avrebbe mai l'ardire di voler distinguere
nell'istinto, nell'inconscio, il giusto dal falso?” (pp.. 521-522).
Senza un contenuto è possibile giustificare qualsiasi forma.
Si
leggano i frammenti poetici di Colli, presenti ne La
ragione errabonda, si
mettano a confronto le poesie con l'abbozzo della tragedia su
Alessandro, si vedrà chiaramente che il verso colliano è
veramente dionisiaco quando scrive su Alessandro piuttosto che quando
rievoca vissutezze personali.
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