Due
parole su Enrico Colli, che ho conosciuto in due indimenticabili
occasioni: la prima a La Spezia, quando una libreria locale organizzò
un incontro di studio in occasione dell'uscita delle lezioni di Colli
su Zenone di Elea (21 novembre 1998), la seconda al convegno
organizzato, a vent'anni dalla morte del filosofo, da Riccardo di
Giuseppe a Todi (22 ottobre 1999). Non ho avuto modo di parlare a
lungo con lui – del resto non c'era molto tempo e non c'ero solo io
– e mi dispiace molto: avrei voluto sapere da lui alcune cose su
suo padre (per esempio, visto che la mia tesi di laurea era
sull'estetica di Colli, mi sarebbe piaciuto conoscere i gusti di
Colli, le sue preferenze rispetto alle opere d'arte e agli artisti)
ma mi bloccò un certo rimore reverenziale, che tutt'ora provo
sia nei confronti dei suoi familiari sia nei confronti dei suoi
antichi discepoli. Ma mi rammarico soprattutto per non avergli
espresso il mio riconoscimento per il modo in cui stava curando le
opere di suo padre; avrei voluto ringraziarlo per lo stile severo con
cui ci restituiva gli scritti postumi di Colli, senza sovrapposizioni
e senza interpretazioni.
E
la stessa cura ha saputo mantenerla anche per gli ultimi Platone
politico, Filosofi sovrumani, Apollineo e dionisiaco
Io
ero molto contento che a curare le opere di Colli fosse un suo
familiare, mi sembrava la scelta migliore; col passare del tempo ho
compreso che questa scelta attenuava anzi annullava la mia gelosia!
Avrei sopportato a fatica la mediazione di un altro curatore, per
questo motivo ho letto pochissime cose su Colli, preferendo
affrontarlo direttamente, ovviamente all'interno della schiera dei
suoi maestri, e ormai sono oltre trentacinque che scavo in questa
miniera d'oro.
Negli
ultimi anni mi chiedevo: oltre a celebrare la grandezza di Colli, che
cosa mi resta da fare seguendo i suoi insegnamenti?
Il
Convegno di Lerici è stata per me l'occasione per ripensare il
problema estetico in Colli. Allo scritto che grazie alla benevolenza
di Angelo Tonelli si trova negli Atti, in cui ho cercato di porre
alcune obiezioni, avrei dovuto anteporre una citazione nietzscheana –
se non compare è perché sul momento non ricordavo il
luogo dei Frammenti postumi in cui essa compare.
Questa
citazione – che poi ho ritrovato – è relativa al
ripensamento che Nietzsche sta facendo sui suoi scritti giovanili e
dice: “Ma posto che io mi sia ingananto, il mio inganno almeno non
torna a disdoro né dei suddetti [per Nietzsche si tratta di
Schopenhauer e Wagner, per me di Colli] né di me stesso. E'
qualcosa, sbagliare così”.
(Fp
ago-set 1885, 41 [2]
Una
questione a cui sto lavorando da anni è la questione della
grandezza.
Un
paragrafo di questo lavoro comprende un capitolo Contro l'azione
- “Il mondo ha senso solo per essere contemplato” (RE 239). Per chi condivide l'insegnamento di Orfeo, che pone il conoscere come essenza della vita e come culmine della vita (SG I 43), la questione della superiorità del filosofo rispetto all'homo politicus o oeconomicus non sarebbe nemmeno da porre. L'esistenza stessa di alcune grandi anime annulla qualsiasi altra individuazione.
- Il simbolo orfico dello specchio parla a favore della contemplazione e contro l'azione. Secondo Colli, prima che i filosofi comincino a discutere, in Grecia è già acquisito il risultato teoretico essenziale (RE 303). L'indicazione è suggerita da Orfeo: Dioniso si guarda allo specchio e vede il mondo. Il mondo che ci circonda, inclusi noi stessi che lo conosciamo, è già una conoscenza, un'immagine, un riflesso che non assomiglia al dio, ma è il modo in cui il dio si esprime nell'apparenza (SG I 42-43). Per Colli tuttavia l'immagine suprema del fanciullo allo specchio non indica soltanto la natura illusoria del mondo. Rivelatosi come puro rispecchiamento, il mondo non sorge da un atto creativo; dalla sua nascita è da escludere ogni idea di creazione, di volontà, di azione: “tutto è fermo: la vita e il fondo della vita sono un dio che si guarda allo specchio” (FE 52).
- Sulla priorità del conoscere sull'agire sembra non esserci alcun dubbio: non c'è agire senza conoscere, mentre si dà conoscere senza agire. E' impossibile vivere nel presente prescindendo da ciò la memoria che ha elaborato: “l'azione per intervenire presuppone la costituzione dell'oggetto che la indirizzi”.Dunque la vita nella sua immediatezza non è azione; o è “sono profondo”, come sapevano gli Indiani; oppure estasi mistica in cui si chiudono le porte dei sensi; ma anche lo stato interiore che precede l'intuizione artistica (cfr. RE 216). Tenendo quindi fermo il punto di vista genetico la preminenza va concessa al conoscere.
- Tuttavia Colli sa che non è possibile concedere alla conoscenza una funzione autonoma e che “dal punto di vista dell'organismo umano e dei suoi fini biologici, il conoscere è uno strumento dell'agire” (RE 217). La conoscenza come strumento dell'azione è subordinata ai fini dell'individuo, ma “nella struttura dell'apparenza ... i fini degli individui sono i risultati più illusori, più aberranti dell'immediatezza” (FE 223). Possiamo vedere qui un'allusione a un frammento Eraclito: Che accada quanto vogliono, per gli uomini, non è la cosa migliore (fr. 16). Oppure, utilissimo è il commento ai frammenti fr. 13: i più vivono come se ciascuno avesse un senso suo proprio; e fr. 96: non bisogna fare e dire proprio come i dormienti, dal quale si evince che la conoscenza rivolta all'azione non ci permette di uscire da noi stessi e riconoscere le cose nelle loro realtà. Ma l'aspetto notevole è che questo errore gnoseologico è pure una stortura metafisica, che nel mondo umano si riflette come presunzione e violenza dell’individuo.
- Anche se, per difendere l'animalità dell'uomo, Colli riconosce che è “sana” una razionalità che sia l'espressione degli istinti vitali dell'uomo, al contrario dell'ipertrofia del pensiero astratto che porta allo sfacelo biologico (DN 52). E' chiaro che in Colli è il conoscere senza scopo che ha più valore.
- Contro l'azione Colli non porta argomenti morali, bensì teoretici. In Filosofia dell'espressione, confutata la sostanzialità del soggetto e posta la rappresentazione come l'unico dato primitivo, afferma che la “conoscenza esiste, ma non ci sarebbe un portatore della conoscenza. Inoltre, se non c'è un portatore della conoscenza, come potrebbe esistere un portatore dell'azione? Senza portatore dell'azione d'altra parte non è concepibile neppure una volontà e l'azione stessa senza un suo portatore è assurda. Chi agirebbe?” (FE 14).Il problema consiste nell'impossibilità di ricostruire nella sua completezza l'intricato tessuto rappresentativo, ecco perché la ragione umana ricorre all'aiuto di certi concetti metafisici (volontà, azione).L'interruzione dell'universale reticolo rappresentativo è sentita con disagio, la necessità di un vincolo continuo tra le rappresentazioni suggerisce di integrare le lacune conoscitive con concetti approssimativi che semplificano sbrigativamente le fratture e le oscurità tra i gruppi di rappresentazioni che “non stanno sulla stessa linea”. Questi concetti approssimativi sono posti dai filosofi anche “con la pretesa di svelare qualcosa di sostanziale”. Ma nella realtà dell'apparenza, dice Colli, l'unico oggetto razionale è il soggetto empirico, che però è inteso come un gruppo di rappresentazioni a cui non può inerire una facoltà, il volere (cfr. DN 28-30).
7.
Contro l'azione, del resto, si pone già l'opposizone posta da
Colli, non più come in Schopenhauer tra volontà e
rappresentazione, bensì tra interiorità ed espressione.
Vale
la pena ricordare che secondo Schopenhauer la cosa in sé non
si trova attraverso l'analisi della rappresentazione. Solo attraverso
un'apprensione immediata il soggetto coglie l'intimo congegno del
suo essere e del suo agire, la volontà. In più,
aspetto fondamentale per la metafisica di Schopenhauer, non solo gli
atti del corpo ma persino il corpo stesso è fenomeno della
volontà. Il corpo insomma è la volontà fattasi
visibile.
Dal
confronto con Schopenhauer Colli matura la sua visione del mondo, in
cui però la fondamentale opposizione tra noumeno e fenomeno
viene ripensata nei termini di interiorità (che assume
valore di cosa in sé) ed espressione (cioè la
rappresentazione).
Anche
qui occorre ricordare la differenza che c'è in Colli tra gli
scritti giovanili e quelli della maturità: nei primi si parla
di interiorità pura in senso mistico, nei secondi il contatto
metafisico si “abbassa” a livelo dell'impressione sensoriale,
proprio per poterlo inserire all'inizio della conoscenza naturale,
cosa che non poteva essere fatta con il “dionisiaco” inteso in
senso esclusivamente sovrumano (cfr. AD).
Questa
differenza è importante per cogliere la differenza tra i due
filosofi. Da una parte abbiamo una metafisica che cerca di spiegare
la vita, dall'altra una gnoseologia che spiega il modo in cui la si
conosce. In certo senso nei confronti della metafisica Colli è
ancora kantiano. In lui le categorie che permettono la conoscenza non
sono forme a priori, ma sono ricavate dall'analisi del passaggio tra
il contatto e l'espressione. Seguendo Schopenhauer, si spinge in
direzione dell'incondizionato, ma non crede che esso possa essere
considerato come l'origine dell'essere e dell'agire, bensì
semplicemente come l'origine della rappresentazione.
6.
Anche l'organismo umano da Colli è visto secondo il profilo
espressivo: in quanto composto unificato di rappresentazioni,
l'organismo è la convergenza di un gran numero di serie
espressive in una sola espressione finale.
La
differenza sostanziale con la dottrina di Schopenhauer sta
soprattutto qui. Per Colli “l'unità organica non viene
presupposta nella sfera dell'immediatezza” (FE 26). Tutto è
risolto in termini di rappresentazione, “l'unico dato primitivo”
(FE 9).
Il
mondo è rappresentazione dunque è il dato più
sicuro indubbiamente. L'enigma del vivere sta in una esperienza
extrarappresentativa. Data la critica radicale al soggetto, Colli sa
che non può essere spiegato l'intimo congegno del suo
essere e del suo agire.
La
sua filosofia trasforma la metafisica intesa nel senso tradizionale
del termine. Poiché l'elemento metafisico è un momento
di immediatezza, cioè l'impulso ostacolato è un caso di
memoria dell'irrappresentabile.
Ciò
che Colli spiega è l'intimo congegno del conoscere, non quello
dell'essere e dell'agire. Per quanto riguarda l'agire occorrerebbe
sviluppare appunto quella che lui indica come “ipotesi stravagante
di una struttura metafisica” (DN 100). Ed è proprio la
questione della grandezza in opposizione alla potenza che potrebbe
metterci su questa strada. Anche perché Colli individua la
radice conoscitiva dell'individuazione nel fenomeno nella
differenziazione che c'è in seno ai contatti metafisici, “tra
quelli che sono un giuoco, una danza, un riso di fanciullo e quelli
che sono oppressi dall'ostacolo più di quanto non sappiano
espandersi, in cui dolore e mancanza prevalgono” (RE 308)
Dunque
per Colli “la conoscenza esiste, ma non ci sarebbe un portatore
della conoscenza” e “se non c'è un portatore della
conoscenza, come potrebbe esistere un portatore dell'azione?”. Ecco
che l'azione diventa una “qualitas occulta” (FE 14).
Ricordiamo
inoltre che tra i principi di ragione sufficiente Colli ammette solo
la ratio fiendi e la ratio cognoscendi
(rapporto di causa ed effetto e rapporto ragione conseguenza);
mentre sono esclusi la ratio essendi e la ratio
volendi (poiché Colli non ammette forme a priori e non
ammette l'azione).
7.
Come è noto, Schopenhauer ha trasferito per analogia il
concetto di volontà dalla sfera interiore a quella fenomenica.
Per Colli questo modo di procedere è ingenuo: “per
quel che riguarda il mondo del divenire anzi, con espressione
rigorosa e sintetica, si dovrà dire in generale che, in quanto
non si riduca in puri termini di conoscenza e di relazione
rappresentativa, non esiste in nessun modo ciò che viene
designato con il termine di azione (FE 12-13; DN 86). Con il concetto
di volontà (come pure quelli di potenza, spirito, energia,
fine, ecc.) non si può pretendere di svelare qualcosa di
sostanziale rispetto alla varietà dell'esperienza. Colli
chiarisce la sua prospettiva con la distinzione logica tra
comprensione e estensione: dato che la comprensione
riguarda i predicati essenziali, mentre l'estensione si riferisce
agli oggetti del mondo sensibile, ne segue che la prima “precede e
prevale” sulla seconda. Difatti spiega Colli l'interpretazione del
mondo fisico si regge sugli universali della comprensione; essi in
quanto espressione dell'immediatezza del conoscere hanno radici “più
concrete della presunta concretezza del mondo fisico” (RE 440; 446;
207a). Questo discorso consente inoltre a Colli di ribadire la
preminenza di una teoria del conoscere rispetto a una teoria
dell'azione, in base all'elemento metafisico e in rapporto al
meccanismo che costituisce la rappresentazione dell'oggetto. In una
teoria della conoscenza l'elemento può essere postulato come
un limite sia pure inconoscibile, per mezzo di un'analisi
dell'espressione che lo testimonia; lo stesso non è possibile
in una teoria dell'azione, in cui si vorrebbe introdurre come
elemento noto un elemento metafisico “operante nel mondo
dell'espressione come suo elemento interno”, poiché in esso,
precisa Colli, c'è qualcosa che “si rivela sempre in una
rappresentazione che non ha cause o ragioni, che quindi non può
essere inserita fondatamente nel tessuto della conoscenza” (RE 228;
228b).
Nel
tessuto della conoscenza può essere inserito, pur essendo
inconoscibile, l'immediato in quanto sua origine, ma non nessun altro
elemento metafisico.
Colli
rifiuta decisamente la visione del mondo come volontà. Per lui
il mondo “è lecito interpretarlo soltanto come un dato
conoscitivo” (FE 12). Tutto è risolto in termini di
rappresentazione, nel solo dato accettabile (FE 14).
Questo
confronto Schopenhauer – più arduo è quello con
Nietzsche – tra conoscere e volere, tra conoscenza e azione,
insieme al commento su Eraclito in cui il richiamo a un “errore
gnoseologico” che corrispondeva a una “stortura metafisica”,
diventano importanti qualora volessimo trovare un criterio per
stabilire la superiorità della grandezza d'animo rispetto alla
volontà di potenza.
Anche se Colli ci dice che
“l'uomo del pensiero che si sente superiore all'uomo della potenza
non ha bisogno di metterlo in mostra: la sua esistenza lo prova”
(DN 65).
Pisa,
29 aprile 2015
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